Quando una storiella ci obbliga a pensare
Nei giorni scorsi, su Facebook, mi è capitato di leggere una storiella divertente, che ho girato agli amici per strappare loro un sorriso. La riporto anche a voi, per fare con voi qualche riflessione. Ecco la storia.
“Ieri sera, mia moglie ed io, eravamo seduti a tavola a parlare delle cose della vita...
Nei giorni scorsi, su Facebook, mi è capitato di leggere una storiella divertente, che ho girato agli amici per strappare loro un sorriso. La riporto anche a voi, per fare con voi qualche riflessione. Ecco la storia.
“Ieri sera, mia moglie ed io, eravamo seduti a tavola a parlare delle cose della vita. Quando siamo arrivati a parlare di morte e vita, le ho detto: «Non lasciare mai che io viva in stato vegetativo, in dipendenza da una macchina e facendomi alimentare da qualcosa di artificiale. Se dovessi vedermi in questa condizione, spegni tutti gli apparati che mi tengono in vita». A quel punto mia moglie si è alzata e, senza dire una parola, ha spento il televisore, il computer il lettore di Cd e il cellulare. Poi mi ha tolto la birra».
Non saprei neppure io come chiamare questo breve racconto. Aforisma, anedotto, parabola? Non è importante indagare sul genere letterario. Più importante, oltre l’evidente ironia, è il messaggio che questa storia ci regala.
Si dice che l’uomo è riuscito ad allungare la durata della vita, ma ha perduto le ragioni per viverla. Purtroppo è vero, ma è un gusto che ha perduto per strada, quando si è convinto che la tecnica e le scoperte scientifiche gli avrebbero permesso di poter fare a meno degli altri. Esattamente il messaggio che viene fuori dalla storia che vi abbiamo proposto.
Viviamo di tecnica, signori. A riempire i nostri spazi vitali non sono più le persone, le conversazioni tra di noi, la creatività di tempi condivisi. Mi confidava un ragazzo universitario: «Non vado più in auto con mio padre. Facciamo anche cinquanta km senza che dica una parola. Sempre intento a mandare messaggi, preoccupato che io non veda. Oltre ad aver paura che mi porti fuori strada, comincio a sospettare che abbia l’amante».
Ordinaria amministrazione familiare. Quella di figli incollati al cellulare per chattare con gli amici, nei tempi dei pasti e in quelli dello studio, o abbandonati sul computer per una navigazione che ha i tempi omerici di un’Odissea. Madri che chattano dal piano terra con la figlia che abita al primo. Padri che scorrazzano sul computer più e peggio dei figli. Una piazza virtuale dove si finge di comunicare senza più incontrarsi. Perfino farsi una foto non ha più bisogno degli altri. La scoperta del selfie ha ovviato al disagio di chiedere. Non serve più quella frase famosa: per favore mi scatterebbe una foto? Facciamo tutto da soli, solitari vagabondi nella galassia tecnologica dove siamo immersi.
Abbiamo ucciso l’amore. Quanto meno ci stiamo riuscendo. Ma è una storia che ha radici lontane. Partita da quel razionalismo illuminista che ha fatto della ragione il nuovo dio dell’umanità. Seppellito il Vangelo, abbiamo avanzato, lentamente ma inarrestabilmente, cantando il peana della vittoria, mentre si brindava alla scienza e alla tecnica come il nuovo verbo che avrebbe offerto al mondo nuovi paradisi. Abbiamo così imparato che la gioia non ci veniva dagli altri, perché bastava incollarsi davanti alla Tv o ad computer e attrezzarsi dell’ultimo iPhone per sentirsi in compagnia pur restando da soli. Inesorabilmente abbiamo disimparato ad amare. Oggi in crisi è l’amore, prima ancora della famiglia e della cultura in generale, perché abbiamo finito per credere che tutte le risposte della vita ci sarebbero venute dalla tecnica, cioè dalla creatura che ha preso il posto del Creatore.
E allora anche una serata incollati a chattare, con un bicchiere di birra in mano e una moglie frustrata possono diventare l’anticipo di una vita, biologicamente sana ma psicologicamente malata. Tenuta in piedi dai “macchinari”. Sorridiamoci pure sopra a queste storielle, ma senza scordare che proprio sorridendo possiamo dirci le cose più vere.