La chiamano movida ma definirla libertà è imbroglio semantico
Vedere masse di buontemponi accampati fuori dai bar o negli spazi pubblici, in barba a tutte le regole di sicurezza di questi giorni, fa male agli onesti. La chiamano movida, dal nome del movimento socio-culturale nato in Spagna alla fine del franchismo e continuato per tutti gli anni ’80...
Vedere masse di buontemponi accampati fuori dai bar o negli spazi pubblici, in barba a tutte le regole di sicurezza di questi giorni, fa male agli onesti. La chiamano movida, dal nome del movimento socio-culturale nato in Spagna alla fine del franchismo e continuato per tutti gli anni ’80. Si trattò allora di un fenomeno coltivato soprattutto dalle forze di sinistra, con cui si incentivava il ritorno nelle piazze e la loro occupazione simbolica, come espressione del nuovo potere democratico. A questa valenza politica si associò ben presto l’idea della trasgressione, vivendo lo spazio pubblico soprattutto durante la notte e accompagnando questi rituali associativi con l’uso di alcol e di droghe in generale.
Cosa abbia in comune la movida delle nostre piazze con la sua fonte ispiratrice, probabilmente è soltanto il nome, se non fosse per la comune prassi di darsi un po’ di tono con l’assunzione di alcol e qualche rigo di coca. Finita la spinta ideale delle origini, al suolo sono rimasti i cocci di una libertà senza regole, ben rappresentata dai cocci più realistici di bicchieri rotti e bottiglie vuote sui plateatici delle città. Ed è proprio la sbornia di menefreghismo che ne viene fuori a rendere più difficile attribuire qualche ragione a quella che appare come mancanza di responsabilità e, in definitiva, di rispetto.
Rispetto verso i morti, prima di tutto. Quanti portatori sani, sia pure incolpevoli, stanno dietro alla fine della vita di tante persone? E quanti ancora potrebbero essere colpiti dal virus per l’irresponsabilità di qualcuno? Ho già ricordato cosa mi ha risposto una ragazza sguaiata e senza maschera, che mi sono permesso di richiamare al senso civico del dovere. «Ma cosa me ne frega a me? Tanto è lei che crepa per primo, vista l’anagrafe». Questa la risposta composta della signorina.
Ma il rispetto da parte di questi signori sarebbe preteso anche nei confronti di altre categorie sociali. A cominciare da chi ha perso il lavoro, da chi non riuscirà più a rimettere in piedi la propria attività, dai tanti artigiani sull’orlo del fallimento… Penso poi ai drammi personali, alla triste vicenda di un amico milanese, che domenica scorsa è andato fuori dalla chiesa a chiedere l’elemosina, perché senza lavoro e senza più risorse. E ancora, rispetto per tutti i cittadini, quelli degni di questo nome, attenti a rispettare le distanze di sicurezza e a muoversi con maschere che tutelino la salute propria e quella altrui. Perché questi sì e loro no? Come può salvarsi un’Italia dove qualcuno può impunemente vivere sopra o fuori delle regole?
C’è pur sempre una frangia di pensatori che inneggiano al diritto alla libertà dei giovani, costruendo le architetture del loro pensiero sulla retorica dei giovani futuro della società e del mondo. Espressione formalmente vera, ma solo anagraficamente, se questo futuro non diventa anche assunzione di precise responsabilità e stili di vita.
Appare evidente che dietro il fenomeno della movida, interpretata in maniera così sfacciata, non si nasconde tanto il bisogno di evadere dopo la claustrazione di questi mesi. Il fenomeno racconta piuttosto una filosofia che sta venendo avanti tra le nuove generazioni, dentro alla quale sono state portate da un consumismo gaudente e individualista. Si tratta di una forma di narcisismo in cui l’unico obiettivo è quello di divertirsi nell’oggi, come se fossero saltati tutti gli anelli che legano le generazioni tra loro o, se volete, come se la loro vita non avesse né un passato da cui imparare, né un futuro di cui prendersi cura. Un domani senza progetto, che è lo stesso che dichiarare morta la speranza.
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