L’importanza d’essere celibi ma solo se si vive per gli altri
Di fronte ad un prete che lascia il ministero perché ha trovato una compagna o un compagno come è accaduto recentemente, quasi sempre la gente si divide in due fazioni. Da una parte chi vive ciò con sofferenza e delusione...
Di fronte ad un prete che lascia il ministero perché ha trovato una compagna o un compagno come è accaduto recentemente, quasi sempre la gente si divide in due fazioni. Da una parte chi vive ciò con sofferenza e delusione. E questo perché c’è una componente di idealizzazione morale della figura del prete ed anche una grande aspettativa. Come se l’abbandono fosse l’ultima barriera a cadere, in un mondo senza più certezze e punti di riferimento. Ma c’è anche una parte della popolazione che plaude a queste scelte, convinta che stia nell’esercizio della sessualità la riuscita della vita. Una lettura sbrigativa, figlia di un pansessualismo che ha scarnificato il contenuto dell’affettività, ridotta ormai a semplice esercizio fisico.
Sul senso del celibato sarebbe il caso di tornare con serenità e pacatezza, evitando le scorciatoie dei luoghi comuni. Così come nulla vieta che la Chiesa un giorno possa fare la scelta di un sistema misto, dove alcuni possono sposarsi. Questo accade già in alcune minoranze cattoliche dell’Est europeo e sposati sono anche molti preti che dall’anglicanesimo si sono convertiti recentemente al cattolicesimo.
Ciò detto bisogna ricordare che la Chiesa cattolica è l’unica religione al mondo che lo prevede obbligatorio per i suoi ministri. Chi volesse vedere questo come una misura castrante, dovrebbe riflettere anche sulla bellezza di un esercizio pastorale a tempo pieno. Un prete senza famiglia, che viva bene la propria donazione, non è un uomo senza affetti, ma una risorsa illimitata per gli altri e per se stesso. Ma proprio qui sta il problema. Perché il celibato, che è una conquista che si fa sul campo giorno per giorno, o diventa un incontro di umanità, tra persone che si donano reciprocamente, o rischia di diventare una continenza frustrata, un equilibrio instabile o un tormento perpetuo.
È solo nell’essere per gli altri che il celibato trova la sua ragione e la sua continua alimentazione. Se cessa questa corrente comunicativa con la gente, si rischia sempre di diventare degli scapoloni, che attraversano malinconicamente la vita. Senza dimenticare che il celibato non si tradisce soltanto con la frequentazione sessuale di una persona, ma anche nei rifugi dentro i quali ci si nasconde per sfuggire alle fatiche del rapportarsi agli altri. E allora, che si tratti di buttarsi nella cultura, nelle ideologie politiche, nel rubricismo liturgico con le sue vesti e i suoi merletti, nel chiudersi in casa sopra un computer... tutto diventa alternativo a una vocazione che domanda ogni giorno di uscire per strada. A incontrare le fatiche della strada. Diceva un direttore spirituale che il celibe deve indossare la testa dello sposato. Chi vive in famiglia sa che la gestione della casa e delle persone che la abitano è un processo continuo di responsabilità e di sacrificio. È vero che anche tra gli sposati esistono gli scapoloni, quelli che scelgono il bar, lo sport, le evasioni sentimentali e le finzioni amorose. Ma nessuno di noi chiamerebbe tutto questo amore. Analogamente...
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