Interrogarsi sulla natura se vogliamo rispettarla
La cronaca ci dice che attualmente in Amazzonia ogni minuto bruciano l’equivalente di due, tre campi di calcio. Perfino l’astronauta Luca Parmitano dal satellite ha inviato le foto di questa catastrofe, come a dire che anche il Cielo è testimone oculare di tanta stoltezza umana. La scienza ci dice che questo polmone verde produce il 20% dell’ossigeno per tutta la terra, e quindi i danni climatici per la sua scomparsa finirebbero per ricadere sull’umanità intera.
La cronaca ci dice che attualmente in Amazzonia ogni minuto bruciano l’equivalente di due, tre campi di calcio. Perfino l’astronauta Luca Parmitano dal satellite ha inviato le foto di questa catastrofe, come a dire che anche il Cielo è testimone oculare di tanta stoltezza umana. La scienza ci dice che questo polmone verde produce il 20% dell’ossigeno per tutta la terra, e quindi i danni climatici per la sua scomparsa finirebbero per ricadere sull’umanità intera.
La politica, come al solito, fa i suoi proclami, tirando spesso l’acqua al proprio mulino. Macron nei giorni scorsi è sembrato il più duro nel condannare Bolsonaro, presidente del Brasile, per una presunta indifferenza alla soluzione reale del problema. Purtroppo il denaro non puzza, dicevano saggiamente gli antichi, e forse anche il presidente francese ha dimenticato d’essere il primo importatore al mondo di soia brasiliana, quella che viene coltivata negli spazi disboscati.
Nei giorni scorsi, una lettera interessante pubblicata sul quotidiano locale, invitava la Chiesa ad essere più coraggiosa nel trattare di temi ambientali. Sì, perché non basta la lungimirante sensibilità di papa Francesco, che sul tema ha pubblicato l’enciclica Laudato si’, se poi la catena di distribuzione finisce alle porte del Vaticano. C’è un ritardo innegabile da parte dei credenti nel percepire, non solo la gravità dei fenomeni di cui l’Amazzonia è solo un esempio, ma anche le tante dinamiche culturali che oggi si nascondono nel percepire l’idea di natura, davanti alla quale è fondamentale recuperare i tanti significati: ambientali, biologici, umani… ma soprattutto recuperare il significato profondo della relazione tra l’uomo e il creato e chi li ha creati.
È indubbio che nel recente passato, quando si faceva riferimento a questo tema, si faceva prevalere una visione biocratica, ossia la convinzione che fosse l’uomo il protagonista assoluto, con potere di vita e di morte su tutto ciò che stava intorno a sé. Una sorta di assolutizzazione che finiva per consegnare alla creatura pieni poteri su tutto il resto della creazione. Si riconosceva che era Dio il creatore di tutto, ma più nominalmente che realmente. Di fatto lo si estrometteva dalla scena, facendo dell’uomo il padrone assoluto, libero di fare e disfare a proprio piacimento.
Ad accelerare questa cultura dell’insignificanza sarebbe poi intervenuta la teoria evoluzionistica, che di fatto desacralizzava l’idea di natura e la rendeva fenomeno storico. E se la natura era qualcosa che mutava in continuazione, senza particolari significati teologici e creaturali, doveva essere la tecnica ad occuparsi di essa, gestendola come si farebbe con una azienda complessa. Mi faceva ridere nei giorni scorsi Donald Trump, quando proponeva di combattere i fenomeni atmosferici più gravi con le armi nucleari. Nemmeno lo sfiorava l’idea che fossero i comportamenti umani, quelli che generano i disastri, a dover essere colpiti per primi. Ma in fondo anche lui è vittima dell’ultima frontiera culturale che riguarda la natura, ossia di quel naturalismo emotivo e psicologico, che vorrebbe il mondo come una immensa beauty farm, su cui fare affari e illudere l’uomo di poter ritrovare se stesso. Oggi basta un’etichetta “bio” per fare l’affare e promettere spazi incontaminati per far aprire i cordoni della borsa. Senza che questo ci aiuti a dare senso al rapporto profondo tra la creatura, il creato e il loro Creatore, che è l’unico modo per restituire loro rispetto e dignità.
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