Il silenzio liturgico ci aiuta a riflettere sulle cose essenziali
In questa settimana, che non è meno santa per l’assenza di riti comunitari, i cristiani più attenti avranno avuto modo di leggere in filigrana i tanti messaggi che ci vengono da questo obbligato silenzio liturgico. A cominciare dal bisogno di esprimere la fede nei gesti...
In questa settimana, che non è meno santa per l’assenza di riti comunitari, i cristiani più attenti avranno avuto modo di leggere in filigrana i tanti messaggi che ci vengono da questo obbligato silenzio liturgico. A cominciare dal bisogno di esprimere la fede nei gesti. Si fa presto a dire: io la fede me la vivo interiormente senza bisogno di manifestarla in pubblico. Ce ne accorgiamo ora quale alibi della pigrizia spirituale si nasconda dietro questa espressione, mentre mancano le nostre liturgie, con i colori, i suoni, le voci, le strette di mano, il sorriso della gente, l’Eucarestia, l’olivo benedetto, l’acqua santa da portare nelle case… Ci manca tutto questo perché la creatura umana ha bisogno di vedere, toccare, sperimentare con l’intelligenza ed il cuore. Vale per le cose di Dio, così come per quelle del mondo che ci sta intorno.
Ma il silenzio liturgico di questi giorni ha messo in evidenza anche il pericolo di una ritualità fatta di abitudine, ispirata alla logica del si è sempre fatto così, quando ci si ferma alla scorza senza andare in profondità nel Mistero celebrato. Siamo stati forzatamente obbligati a riflettere più che a fare o vedere, ossia a fare nostro il messaggio proposto dalla memoria dei fatti.
Mi è capitato tante volte, in questo tempo di reclusione forzata, di pensare al tema della libertà. Libertà, libertà… come è facile riempirsi la bocca quando le parole vengono svuotate del loro potere semantico. Libertà da chi, da che cosa? Penso al grembiule di Gesù nel Giovedì Santo. Si fa presto a banalizzarlo facendolo indossare per qualche istante sui fianchi di un prete. Più difficile portarlo dentro casa, quando la convivenza obbligata fa emergere i gusti personali, le aspettative personali, le priorità personali. Scenari in cui prende il sopravvento la logica del mio bene, in definitiva dei miei diritti o, se volete, del mio egoismo. Le innumerevoli rotture di coppia di questi giorni ne sono una chiara evidenza.
Una logica che è andata in replay il Venerdì Santo, in quell’orto dove aleggia la paura, il rischio, il tradimento di un mondo dove il male sembra avere il sopravvento. E sappiamo bene che la paura (e quanta ce n’è in questo tempo!) genera meccanismi di autodifesa, di aggressività, di polemica, di violenza, di opportunismo, di codardia… Una difesa di sé ad oltranza contro tutto e contro tutti. Ma è lì, in quell’orto che il Maestro ci insegna a ripetere nei fatti: «Non la mia volontà». È in quell’orto che si impara ad uscire da sé, dai propri interessi, per essere degli altri e per gli altri, nonostante le paure e le fatiche.
Solo così si semina Risurrezione, come lo è stato per Gesù. Una realtà che ci regala le ragioni del nostro sperare, non di meno che un appello continuo alla conversione. Risorgere fiorisce dal cominciare a far tacere il nostro io, a seppellirlo come del grano nella terra, perché la radioattività dell’amore trovi spazio nella nostra vita. “Il regno dei cieli soffre violenza e i violenti lo conquistano” (Mt 11,12). San Giovanni Paolo II così commentava: “A volte, per convertirsi l’uomo deve risvegliare in sé quel ‘violento’, di cui parla Cristo; il violento che agisce quasi contro se stesso, contro la cupidigia, contro la superbia di questa vita, contro il peccato, perché ha il coraggio di conquistare il regno di Dio”.
Buona Pasqua.
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