Il genocidio degli armeni che la Turchia ha paura anche solo a nominare
Che in Turchia sia fatto divieto di parlare di genocidio degli armeni non è un mistero. Un milione e mezzo di morti, colpevoli soltanto di non appartenere all’etnia islamica turca, sono finiti sepolti, si fa per dire, sotto il tappeto come la polvere.
Che in Turchia sia fatto divieto di parlare di genocidio degli armeni non è un mistero. Un milione e mezzo di morti, colpevoli soltanto di non appartenere all’etnia islamica turca, sono finiti sepolti, si fa per dire, sotto il tappeto come la polvere. Quella che offusca il perbenismo di facciata, ma che non si rimuove a dispetto del peso degli anni che corrodono la memoria.
Ad alzare il tappeto ci ha provato più d’uno. Ma quando non si sono aperte le porte del carcere (perché in Turchia chi parla di genocidio armeno va in galera) si è pagato con la vita. Eppure, anche in passato non mancarono i testimoni, i giusti come vengono chiamati oggi, i quali scelsero di schierarsi dalla parte delle vittime, rischiando personalmente, in nome di una coscienza che gridava più forte delle leggi dei carnefici.
La storia del genocidio degli armeni, che si volle vendere, a guerra finita, come l’effetto del grande conflitto mondiale, in una generica logica da pallottoliere, fu in realtà il prologo di quella cultura che, di lì a poco, avremmo ritrovato nei miti della razza come fondamento dello Stato. Erano gli anni dei nazionalismi muscolari che vedevano le grandi potenze contendersi l’occupazione e le ricchezze del mondo, ma erano anche gli anni dell’agonia dei tre grandi imperi, quello degli zar, quello Austroungarico e quello Ottomano. E come sempre succede nei regimi in estinzione, si tende a cercare le cause della propria debolezza nella diversità delle minoranze. Si va in cerca di presunti errori degli altri non avendo il coraggio di battersi il petto per i propri.
Fu in questo clima di fine impero che il partito dei Giovani Turchi mise in atto il piano di sterminio delle popolazioni armene cristiane, che vivevano nell’Est della Turchia. Popolazioni che si ispiravano, proprio per la loro affinità culturale e spirituale con l’Occidente, ai principi di democrazia e alle sue esigenze di uguaglianza e riconoscimento dei diritti. Come ha scritto uno storico “il movente fondamentale che ispirò l’azione di governo dei Giovani Turchi fu l’ideologia panturchista, il sogno di un immenso territorio unito sulla base di una sola etnia, linguisticamente, religiosamente e culturalmente omogenea. Armeni, greci, assiri, ebrei: l’Impero Ottomano era costituito da un mosaico di etnie e religioni. La popolazione armena, la più numerosa, di religione cristiana, presente fin dal VII secolo d.C. di fatto costituiva un ostacolo al progetto di omogeneizzazione del regime”.
Il progrom iniziò nella primavera del 1915, il 24 aprile per l’esattezza, che viene ricordato ancora oggi come il giorno della memoria. Arrestati i vertici politici e militari armeni, si iniziò con la sistematica eliminazione del popolo. Molti bambini furono rapiti e indottrinati nei principi dell’islam, molte donne vendute ai vari harem dei sultani. Chi non fu ucciso sul posto fu poi condotto verso sud, in direzione del deserto. Molti morirono di stenti, altri furono bruciati vivi, gettati nei fiumi e nel mar Nero. Alla fine di quel popolo mite e cristiano mancavano all’appello 1.500.000 persone.
Papa Francesco, qualche tempo fa, superando tutti i condizionamenti della diplomazia, ebbe il coraggio profetico di parlare di genocidio. Il dittatorello turco finse grande indignazione, ma poi di fatto se ne fregò. Non così ora, perché questa volta a pronunciarsi è il presidente degli States, Joe Biden. E la cosa è un tantino diversa, perché d’ora in poi tutti i cittadini americani che abbiano subito conseguenze dal genocidio potranno rivalersi giuridicamente ed economicamente, con evidenti ricadute politiche. Il futuro per la Turchia si fa ovviamente in salita. Quando inizierà non sappiamo, ma che sarà in salita e sul destino dei suoi dittatorelli non esistono dubbi.
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