Il Fatto di Bruno Fasani
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Il deserto biblico e quello doloroso che stiamo vivendo

Nei giorni che precedono il Natale, si impone come spazio teologico e simbolico il deserto. Ce ne parla Isaia, profetizzando il ritorno di Israele dalla schiavitù, attraverso le lande desolate che occorre attraversare per giungere nella terra della libertà

Parole chiave: Bruno Fasani (348), Natale (46), Coronavirus (96)

Nei giorni che precedono il Natale, si impone come spazio teologico e simbolico il deserto. Ce ne parla Isaia, profetizzando il ritorno di Israele dalla schiavitù, attraverso le lande desolate che occorre attraversare per giungere nella terra della libertà. Nel deserto campeggia poi la figura del Battista, ascetico e austero nel chiamare a conversione il popolo corrotto. Nel deserto di Giuda, verso le grotte di Betlemme, cammina una giovane coppia illuminata dalla stella di Dio, chiamata a far nascere Dio dentro una stalla.
Sappiamo bene come il deserto rappresenti non soltanto un luogo geografico e teologico, ma anche una metafora di ciò che accade nella vita. Esso è lo spazio della solitudine e della penuria, uno spazio senza beni e comodità. Perfino gli animali che ci vivono lo sanno. Capre e pecore hanno imparato a girare le pietre col muso, per leccare le poche gocce di umidità che lo sbalzo termico della notte vi deposita sotto. Porto nel cuore una Messa celebrata con un gruppo di amici nel sud della Giordania, in pieno deserto. Sulle strade che si vedevano a malapena, erano ancora presenti mucchi di sabbia spinti dal ghibli, il terribile vento del Sahara che paralizza la vita fin dentro le città, come sanno bene i beduini che in quei momenti bagnano le tende e fasciano la bocca per impedire che il silicio entri nei polmoni attraverso la polvere che gira a mulinello nell’aria. Ricordo che tenni una breve omelia, per dire come il popolo d’Israele era passato di lì, di ritorno dalla schiavitù in Egitto. Poi, proposi di stare in silenzio per riflettere su cosa sarebbe accaduto se il mondo si fosse dimenticato di noi e ci avesse abbandonato in quel luogo. Vidi tanti occhi lucidi, compresi quelli di uomini avanti con gli anni. Il deserto non lascia spazio alle vie di mezzo. O ti disperi o ti fidi di Dio.
Pensavo al deserto biblico e mi è venuto di paragonarlo al deserto in cui siamo immersi. È fuori dubbio che l’esperienza del Coronavirus ci ha portato dentro il tempo della penuria, il tempo del limite. Impediti a viaggiare, ad uscire dal nostro comune, dalle regioni, non poter visitare amici, parenti, non poter stringere la mano a un caro che sta in ospizio, accarezzare chi sta per lasciare la vita… Le nostre case come clausure e le porte come nuove e invalicabili colonne d’Ercole. Diceva un antropologo che «la storia dell’umanità comincia coi piedi, perché camminando l’uomo copre distanze, esplora, conquista, abita la terra». Ora tutto questo è caduto sotto le armi invisibili di un virus e nel tempo del vietato vietare, abbiamo dovuto cominciare a dire e dirci dei no. Ma dietro quei no ha fatto capolino la solitudine del deserto. Non solo quella della lontananza cui ci obbligano i decreti ministeriali, ma quella del sospetto, dell’altro percepito come untore. E soprattutto la distanza che fiorisce da corpi colpiti dalla paralisi dei gesti. Bandite le strette di mano, gli abbracci, le carezze, l’intimità… quelle parole che i corpi sanno dire senza parlare. Come ad esseri diventati disabili nella comunione, la luce del Natale ci chiede strada nel deserto che stiamo attraversando. Ma questa volta non più nel chiasso esterno o nei gesti convenzionali del nostro comunicare. Piuttosto in quelli dell’interiorità, lì dove la coscienza matura e consolida nuovi modi di vivere, ispirati da Colui che viene a correggere le nostre vite col vocabolario dell’amore. Che rumore fa la felicità? si chiedevano i Negrita in una loro canzone. Dipende molto da noi tornare a sorridere imparando che anche nel deserto può fiorire la vita.

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