Il Fatto di Bruno Fasani
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I mesi dell’estate un’occasione per riflettere sul linguaggio del vestire

Mi trovo a discutere con alcuni amici al rientro dalle vacanze. Al mare, mi raccontano, c’era un gruppo di ragazzine, tredici, quattordici anni, che sfilavano, su e giù per la battigia, indossando un tanga sì e no del peso di dieci grammi...

Parole chiave: Bruno Fasani (348), Il Fatto (439)

Mi trovo a discutere con alcuni amici al rientro dalle vacanze. Al mare, mi raccontano, c’era un gruppo di ragazzine, tredici, quattordici anni, che sfilavano, su e giù per la battigia, indossando un tanga sì e no del peso di dieci grammi. Si capiva che lo facevano per ostentazione, dando motivo di speranza a quella spinta ormonale di cui l’adolescenza è fornitrice primaria. I miei interlocutori erano equamente divisi tra gli scandalizzati, tirando in ballo, oltretutto, l’indifferenza dei genitori delle ragazze presenti sulla scena e quelli che rivendicavano la libertà di andare in giro come pare e piace, pur ipotizzando qualche rischio dovuto all’ingenuità dell’età. Che male c’è, si domandavano? L’estate è un tempo privilegiato per chiedersi quali messaggi facciamo passare col nostro modo di vestire. La riflessione vale innanzitutto sul piano morale. Un tempo si diceva che l’abito non fa il monaco, nel senso che non era certo un vestito a decretare la moralità o meno di una persona. Eppure sappiamo bene quanto sia potente il messaggio che passa dal nostro modo di vestire. Ovidio, ai suoi tempi prima di Cristo, così consigliava le donne: “lasciate nuda parte della spalla, a sinistra, soprattutto se la pelle è candida di neve”. Chissà cosa direbbe oggi davanti ad una moda che sembra preferire la boutique del dermatologo ai tessuti coprenti.
Sappiamo bene quanta importanza abbia il linguaggio della seduzione legato al vestire, gli oggetti con cui lo accompagniamo, il trucco del viso, i profumi che usiamo. Oggi la nudità sembra però percepita come espressione di libertà, più che uno strumento di comunicazione e di relazione. Oltretutto sembra scomparsa l’idea di volgarità, quasi che il corpo ostentato sia automaticamente qualcosa di appetibile. Sappiamo bene, invece, che tante volte ha più successo il coprire che lo scoprire.
Interrogarsi sul modo di vestire è rendersi conto che anche da esso dipende il modo in cui ci percepiscono gli altri, con tutte le conseguenze che ne derivano. Autostima compresa. Immaginate in ospedale un signore in camice bianco che, all’ascensore, ci chiede permesso per entrare per primo. Prego, dottore. E immaginatelo vestito come una persona qualsiasi. Eh belo, el se meta in fila! O immaginate una studentessa universitaria, che andasse all’esame con una vistosissima scollatura. È accaduto. Forse potrebbe incontrare anche qualcuno in crisi di astinenza. Ma il buon senso ci porterebbe a fare quello che realmente ha fatto il professore, il quale ha bocciato la candidata dopo averla freddamente redarguita: signorina, dopo averci fatto vedere quello che ha, ci dica quello che sa.  
Forse dovremo tornare a insegnare alle nuove generazioni che alcuni linguaggi della nostra vita sono assolutamente importanti per determinare l’esito del loro futuro. Penso al modo di vestire, ma anche all’igiene personale, ai tatuaggi, al trucco… Un colloquio di lavoro fatto con un abbigliamento decoroso è spesso il primo lasciapassare per l’assunzione. E non penso qui all’eleganza classica della giacca e cravatta. Anche una tuta da lavoro pulita può avere dignità ed eleganza. Ed anche rinunciare a quella falsa cordialità, che è dare a tutti del tu, come ormai succede in moltissimi ambienti pubblici, aiuta a capire quale personalità si nasconde dietro i modi di una persona.
Si dirà che queste sono considerazioni che nascondono i pregiudizi legati al sentire di epoche passate. Ma è pur sempre vero che la verità di noi stessi è veicolata sempre da ciò che mostriamo. Nel bene e nel male, a prescindere dai tempi.

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