Guardare alla realtà oltre i facili slogan dei luoghi comuni
Da più parti e con le migliori intenzioni sentiamo e leggiamo commenti su questi giorni, ispirati all’ottimismo e alla speranza. E ci sta, ci mancherebbe. Però sappiamo anche che certe affermazioni, grondanti positività, sono spesso gusci vuoti, riempiti al massimo di retorica e banalità...
Da più parti e con le migliori intenzioni sentiamo e leggiamo commenti su questi giorni, ispirati all’ottimismo e alla speranza. E ci sta, ci mancherebbe. Però sappiamo anche che certe affermazioni, grondanti positività, sono spesso gusci vuoti, riempiti al massimo di retorica e banalità. Come certa speranza sulla bocca dei cristiani, una speranza a basso prezzo, ridotta ad intimismo e ad un provvidenzialismo che pensa che tutto si aggiusterà, non si sa perché. Perché la speranza sia tale deve accompagnarsi alla responsabilità, senza la quale rischia di sconfinare nelle chiacchiere che valgono niente.
Per una volta vorrei fare intenzionalmente l’antipatico, andando a spiare dietro la retorica in circolazione, pensando in particolare a un paio di tormentoni. Quello dell’“Andrà tutto bene”, tanto per fare un esempio. È stato saggio insegnarlo ai bambini, per disinnescare in loro la mina della paura. Ma chi guarda con occhi responsabili sa che tra poco, passata la cattiveria del virus, non andrà per nulla bene. Già ora si cominciano a vedere gli effetti della mancanza di mezzi dentro le case. Fame l’ha chiamata il Papa. Al Sud ce lo raccontano come sanno fare loro, pagando anche lo scotto di troppo lavoro in nero come si usa da quelle parti, ma il problema esiste anche al Nord, benché filtrato dalla compostezza e dal pudore.
C’è poi la retorica di un virale #iorestoacasa. Suggerimento lodevole, ovviamente, che qualcuno non fraintenda. Ripetuto in maniera radicale, proporzionata alla pretesa che siano soprattutto gli altri a rispettarlo. Poi, però, anche qui ci è chiesto di sbirciare dietro la tenda dei buoni propositi e degli slogan, compresi quelli del mondo dello spettacolo di cui non si capisce bene se siano più funzionali alla causa o a darsi visibilità. Restare a casa? E chi la casa non ce l’ha? L’Italia ha il tasso di emergenza abitativa più alto nel mondo occidentale. E chi vive nei container per ricostruzioni post terremoto mai avvenute? E i tanti che vivono di disperazione sulle strade, impediti a spostarsi e senza un tetto cui rifugiarsi? E quanti stanno nei centri rimpatri, colpevoli solo di essere stranieri? E i sinti e i rom, con i loro bambini, confinati nelle baracche di cartone? Si fa presto a ballare sui balconi, suonare la tromba o postare vignette per far sorridere.
Io resto a casa. E penso ai tanti ragazzi che, a casa da scuola, seguono le lezioni on line. Professori diventati improvvisamente abili nella gestione delle nuove tecnologie, a fronte di famiglie che non sempre possono garantire questo servizio ai loro figli. Perché c’è un solo computer e i figli sono più d’uno, o perché nella zona non c’è servizio internet. Penso alla Lessinia, dove, senza scomodare le zone dell’alpeggio, non è garantita neppure la copertura del segnale telefonico. Una vergogna che passa anche attraverso il silenzio dei sindaci del territorio.
Ci hanno detto che siamo in guerra. Forse assomiglia a una guerra. Ma è certo che a forza di ricordarcelo si finisce per sentirsi tutti dei soldati. Obbedire, tacere e combattere. Fu così anche quando si decise la campagna di Russia, camminata con scarpe di cartone. Oggi siamo tutti a ricordarne la stoltezza, sapendo che gli eroi non possono esseri figli della miopia di chi li comanda. Oggi in troppi fanno la guerra senza le armi necessarie (maschere e sistemi di protezione) indispensabili per fronteggiare un nemico dalle tante armi potenti. Le armi di un virus.
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