E se per l’anno nuovo ci augurassimo di ritrovare tanta pietà e compassione?
C’è un augurio che vorrei fare ai lettori, fuori dai luoghi comuni, per quanto apprezzabili, quelli della salute, prosperità, benessere, fortuna…
C’è un augurio che vorrei fare ai lettori, fuori dai luoghi comuni, per quanto apprezzabili, quelli della salute, prosperità, benessere, fortuna… A questa Italia provata dalla pandemia, colpita dal virus, ma anche da chi irrazionalmente rifiuta di tutelarsi col vaccino; a questa Italia dove ogni giorno qualche donna soccombe alla brutalità di chi dovrebbe invece amarla; a questa Italia dove la violenza di tanti minorenni racconta un fallimento educativo che preoccupa; a questa Italia dove la democrazia sembra essersi ridotta a voto di scambio, in cui si ragiona non nella prospettiva del bene reale, ma del tornaconto elettorale… A questa Italia vorrei augurare la riscoperta del valore della pietà, la più nobile delle virtù cristiane.
Erano gli anni Ottanta quando ancora insegnavo nella scuola statale. Non mancavo mai di creare l’occasione per leggere in classe un brano de I promessi sposi, un’opera che la cultura contemporanea ha rimosso, con palese stupidità. Non ricordo chi abbia detto che ci sono libri brutti che si può fare a meno di leggere, libri belli che si potrebbero leggere e capolavori che sono pietre miliari che non si può fare a meno di leggere. Il brano che proponevo ai miei studenti era quello della madre di Cecilia, preso dal capitolo XXXIV del romanzo. Ricordo che ogni volta che lo leggevo venivo preso da una profonda commozione interiore, che gli studenti percepivano facendola propria, dentro un silenzio irreale.
Il perché di quella scelta era dettato da due ragioni. La prima riguardava la bellezza letteraria del brano. Un quadro di pura poesia, come raramente è dato di incontrare in tanta letteratura. Ma una seconda ragione dipendeva dal fatto che rivedevo, in quella donna, la pietà del Calvario e quella meno nota pietà cristiana e compassione che avevo visto in tante persone legate alla mia infanzia. Manzoni, per il suo capolavoro, aveva attinto da un fatto realmente accaduto nel 1630, quando a Milano imperversava la peste, raccontato dal cardinale Federico nel De pestilentia. La storia la conosciamo. Renzo, che sta vagando per la città, colpita dalla pandemia, si imbatte nella scena di una donna che mette il corpicino della figlia sul carro dei morti. Ai monatti chiede di ripassare la sera per prendere anche lei e la figlia più piccola. “La sua andatura era affaticata, ma non cascante. Gli occhi non davano lacrime, ma portavano segno di averne sparse tante”, scrive il Manzoni.
Rivedo la scena e mi trovo a pensare a come la società in cui viviamo tenda ad azzerare i sentimenti, creando masse di indifferenti e di aggressivi. Penso con quanta rapidità si stia diffondendo la violenza sui social, quella del cyberbullismo, del body shaming, che è mettere in piazza l’intimità altrui rubata nelle immagini. Penso a programmi televisivi dove persone presunte importanti si giocano visibilità e qualche manciata di soldi attraverso la logica dell’aggressività. penso a bande di minorenni (maschi e femmine indistintamente) che rendono inquietante la convivenza civile…
Penso a tutto questo e sento l’eco delle parole profetiche che scrisse Pasolini negli anni ’70 poco prima di essere ucciso. Denunciava come il popolo avesse abbandonato i propri valori per consegnarsi ai nuovi ideali piccolo borghesi, dentro un sogno di ricchezza e di benessere illusorio, che avrebbe causato soltanto rabbia e frustrazione. “Non c’è più scelta tra bene e male” scriveva. E ancora: “La degenerazione delle masse ci ha portati ad essere aggressivi fino alla delinquenza o passivi fino all’infelicità, che non è una colpa minore”.
Ecco perché augurarci compassione e pietà è forse il regalo più prezioso che possiamo farci.
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