Il Fatto di Bruno Fasani
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Cosa insegnano gli alpini dopo cento anni di Ana

A distanza di poco meno di due mesi dall’adunata, l’Associazione Nazionale Alpini ha celebrato nei giorni scorsi il primo centenario dalla sua fondazione. Era l’8 luglio 1919 quando un gruppo di penne nere, fresche ancora degli orrori della guerra, piantò una bandiera nella galleria Vittorio Emanuele a Milano, facendo lì la loro prima sede...

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A distanza di poco meno di due mesi dall’adunata, l’Associazione Nazionale Alpini ha celebrato nei giorni scorsi il primo centenario dalla sua fondazione. Era l’8 luglio 1919 quando un gruppo di penne nere, fresche ancora degli orrori della guerra, piantò una bandiera nella galleria Vittorio Emanuele a Milano, facendo lì la loro prima sede. Il clima non era dei migliori e di fatto si poteva dire che se la guerra era finita sui campi di battaglia, su quelli civili era ancora in pieno sviluppo. Perfino le autorità cittadine ordinarono di togliere quella bandiera, che tante mani cercavano di strappare non appena calava il sole.
Ci volle la tenacia degli alpini con turni di vigilanza, giorno e notte, perché quel simbolo restasse dove era stato messo. E non certo per una sorta di orgogliosa testardaggine. Quello era il simbolo della nuova Patria e la famiglia alpina si metteva a disposizione di questa Patria, perché in essa si tornasse a vivere da fratelli.
Raccontare queste cose sembra quasi roba da nostalgici, ma non è così. Se chiedessimo a un ragazzo del nostro tempo cosa si cela dietro il tricolore, forse sentiremmo argomentare di nazionale di calcio. Se poi parlassimo di Patria come famiglia di fratelli, di lingua, di fede, di cultura, di arte… probabilmente andremmo a cozzare contro il più impenetrabile muro dell’indifferenza.
Ritengo che la storia degli alpini andrebbe raccontata, ma non in termini di folclore, quanto come presa di coscienza di un percorso capace di risvegliare la coscienza civica. L’impresa non è facile, ma neppure impossibile, purché si tenga conto degli scenari che accompagnano i nostri giorni.
Il primo è certamente quello della nuova cultura digitale che si respira, emotiva e velocissima. Straordinaria nelle sue potenzialità, ma anche appiattita sul presente. Non abbiamo più bisogno di padri che ci raccontino il passato, perché l’interesse è sull’oggi e solo l’emozione impedisce che si faccia zapping. Del passato, ma anche delle persone che te lo raccontano.
C’è poi un secondo scenario da considerare, ed è il fatto che ormai da molti anni il servizio di leva non è più obbligatorio. Bene, dirà qualcuno, se non fosse che al venir meno di questo dovere, non è venuto avanti nulla che creasse nelle nuove generazioni il senso della responsabilità verso il bene comune. Un venir meno mentre cresceva progressivamente il partito delle mamme, metafora di un sentire diffuso per cui ai figli non bisogna chiedere nulla, spianando sulla loro strada qualsiasi difficoltà. Cultura diffusa che ha visto progressivamente la famiglia normativa, quella che dava le regole di vita, cedere il passo alla famiglia intesa come concessionaria di servizi.
Chiudo infine con un terzo scenario, che è quello di una progressiva rissosità che caratterizza ormai molti rapporti umani, politici, ecclesiali, economici, familiari. Una sorta di ostentata autoreferenzialità incapace di distinguere l’importante dal relativo e l’essenziale dal secondario, per dare voce al buon senso di un tempo, che appianava i problemi e aiutava a stare insieme.
Gli alpini sono rimasti probabilmente tra i pochi superstiti di questa cultura positiva. Sempre che si abbia voglia di farla conoscere, decidendo magari di “arruolarsi” con loro.

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