Con la fine dell’embargo nuovi scenari per l’Iran
Ottobre 2016. La tomba del re Ciro è lì davanti. Essenziale, austera, con i suoi ventisei secoli di vita. Nella piana di Pasagarde, sulla strada verso Persepoli, il turista indugia per interrogare la storia. Qui, nella terra dei Parsi, da cui ha preso nome la Persia, oggi Iran, si sono svolti gli avvenimenti che hanno popolato le nostre pagine di storia: Ciro, Dario, Serse, Ataserse…
Ottobre 2016. La tomba del re Ciro è lì davanti. Essenziale, austera, con i suoi ventisei secoli di vita. Nella piana di Pasagarde, sulla strada verso Persepoli, il turista indugia per interrogare la storia. Qui, nella terra dei Parsi, da cui ha preso nome la Persia, oggi Iran, si sono svolti gli avvenimenti che hanno popolato le nostre pagine di storia: Ciro, Dario, Serse, Ataserse… Bevi l’orizzonte di questa civiltà e ti chiedi come sia stato possibile in soli trentasei anni portare un Paese, con una simile cultura alle spalle, ai toni impauriti ed aggressivi, che scopri nel timore della gente e nelle dichiarazioni muscolari dei suoi vertici.
Era il 1979 quando dalla Francia, dov’era esule, aveva fatto ritorno un certo Khomeini. Ad agevolare il suo rientro erano stati anche gli Stati europei. Lo Scià aveva pagato lo scotto d’essere amico dell’America, secondo il detto per cui miei nemici sono gli amici dei miei nemici. In Iran, il clima di attesa, era a dir poco da isteria collettiva. Gli studenti universitari compravano Il Capitale di Carlo Marx, convinti che per il loro Paese sarebbe iniziata l’era di un collettivismo senza più ingiustizie e disparità. L’incanto durò sei mesi, poi la realtà pian piano si impose da sola. Ma ormai era tardi per poterlo dire. Trentasei anni di dittatura avrebbero spinto il Paese a cercare di dotarsi dell’atomica in un confronto ostile e senza dialogo con il resto del mondo. Ma trentasei anni sono anche l’età sotto la quale vivono sessanta milioni di giovani, quanti sono su una popolazione totale di ottanta. Giovani cresciuti al tempo della rivoluzione digitale, che vedono il mondo con le moderne tecnologie e sanno come girano le cose della democrazia e della modernità.
Noi questi giovani li abbiamo incontrati vicino alla tomba del re Ciro. Sono venuti accompagnati dai loro insegnanti di lingua inglese. Le ragazze con un velo sopra i jeans, più per civetteria che per convinzione. Gli occhi e i tratti somatici sono spesso da copertina. Ci ricordano che loro non sono arabi, così come la loro lingua, il farsi. E questo la dice lunga su quanto amino i loro vicini del Medio Oriente. Loro sono indoeuropei, ci fanno sapere. Ci interrogano su cosa passa in Occidente e su cosa pensiamo del loro Paese.
Avverti il bisogno che hanno di aprirsi al mondo, attraverso i loro sorrisi pieni di gratitudine. E capisci guardando i loro volti che il muro dell’embargo che li ha isolati è finito nelle loro teste, prima che i picconi della diplomazia lo facessero cadere nelle Cancellerie. Ora restano le domande: dove potrà arrivare un Paese dalle infinite pagine di storia, molte delle quali ancora da sfogliare? E dove potranno portare le immense ricchezze di cui dispongono, a cominciare da quelle della loro cultura?