Il Fatto di Bruno Fasani
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Chiudere i negozi la domenica aiuta a ritrovare valori perduti

È bastato che il ministro Di Maio annunciasse di voler chiudere i negozi la domenica perché si scatenasse la bufera. Addetti alla distribuzione, associazioni consumatori, investitori, politici, giornalisti...

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È bastato che il ministro Di Maio annunciasse di voler chiudere i negozi la domenica perché si scatenasse la bufera. Addetti alla distribuzione, associazioni consumatori, investitori, politici, giornalisti... Pierluigi Battista, dalle pagine del Corriere della Sera ci ha consegnato una lenzuolata di gente costretta a lavorare nei giorni festivi. Giusto per dimostrare che un’eventuale chiusura diventerebbe un’ingiustizia alla rovescia. Ossia, si tutela una parte, ma chi è obbligato a lavorare resta senza santi protettori. E giusto per darla negli stinchi alla Chiesa tira in ballo anche gli operatori addetti a trasmettere l’Angelus del Papa, obbligati a sgobbare mentre la Chiesa predica il riposo. Tra le categorie vessate mancava solo che mettesse anche preti e chierichetti e poi il quadro era completo. Neppure un filo di dubbio per distinguere tra lavori socialmente indispensabili, si pensi a medici, ristoratori, operatori del trasporto..., dove lo scopo non è il guadagno ma il servizio pubblico e il lavoro domenicale ispirato a pura logica economica.
Era il 321 quando l’imperatore Costantino decise di fare del giorno del Signore, il dies Dominicus, un giorno di riposo. Come già era accaduto agli ebrei col sabato, la domenica finì per diventare il fulcro della vita sociale e religiosa. Chi aveva la fede andava a celebrare l’Eucaristia, ma per tutti la domenica sarebbe diventato il contenitore e il perno di tutta la riforma sociale e culturale, universalmente riconosciuta.
I primi segnali di cedimento sarebbero arrivati col ’68 e la ben nota rivoluzione del “vietato vietare”. Il boom delle discoteche cominciò a scompaginare l’organizzazione cronologica dei tempi e degli stili familiari. Le notti del venerdì e del sabato presero pian piano il sopravvento sui ritmi del riposo e la domenica divenne ben presto il giorno in cui dormire per recuperare le fatiche notturne. La festa usciva pian piano dalla sua valenza sociale, perdendo ogni sacralità. I vecchi santuari dove i genitori portavano i ragazzi della mia generazione furono rapidamente sostituiti dai nuovi santuari, quelli dei centri commerciali e delle discoteche. Lentamente, ma inesorabilmente, essa divenne spazio economico e nulla più. Anche ludico, ma finalizzato a far cassa.
I commercianti, intanto, fanno sapere che la domenica è il secondo giorno, dopo il sabato, per mole di affari, lasciando intendere che una eventuale chiusura potrebbe rivelarsi una apocalisse. In realtà il ragionamento fa acqua da tutte le parti. Primo perché la gente spende i soldi che ha e li spende a prescindere dal giorno di apertura delle botteghe: in secondo luogo perché ognuno si organizza in base agli orari in cui può comprare, così come fa quando ha bisogno di andare in un ufficio.
Fate un salto dopo Trento, là dove si comincia a parlare tedesco. I negozi, da Bolzano in su, chiudono il sabato e riaprono il lunedì. Secondo voi lì il commercio langue e la gente ha meno mezzi del resto d’Italia? La verità è che ripristinare la domenica nella sua valenza sociale e religiosa è porre un limite alla logica dell’economicismo, il quale, notoriamente, non ha spazio né per l’uomo, né per Dio.

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