Bisogna pensare positivo sia pure con tanta paura
Leggo, vedo e ascolto con avidità tutto ciò che riguarda la cronaca aggiornata dell’apocalisse in cui siamo immersi. In contemporanea apprendo che nello Yemen è in corso una epidemia di peste, che sta falcidiando quella povera gente...
Leggo, vedo e ascolto con avidità tutto ciò che riguarda la cronaca aggiornata dell’apocalisse in cui siamo immersi. In contemporanea apprendo che nello Yemen è in corso una epidemia di peste, che sta falcidiando quella povera gente. È la prima volta nella vita che riesco a immedesimarmi nel dolore e nella paura che si possono provare in certe situazioni. Ebola, colera, peste… ne sentivamo parlare, ma erano cose d’altri. Seduti sulla poltrona del benessere occidentale, ci sentivamo immuni e onnipotenti. Sicuri dentro le nostre strutture sanitarie d’eccellenza e protetti dal welfare di uno Stato cui attingere dal rubinetto dei diritti.
E invece? Invece improvvisamente siamo entrati in guerra. In guerra con un terrorista biologico, invisibile e devastante. Ce lo rappresentano anche nella sua morfologia e ci ricorda tanto le mine navali usate durante le guerre passate.
Mi scrive su Whatsapp un prete amico del Kerala, preoccupato di quello che succede qui: cosa fai in questi giorni rinchiuso in casa? Gli rispondo, elencando con un certo ordine cronologico: prego, leggo, scrivo, pulisco un po’, mi cucino da mangiare, dormo e mi annoio. Soprattutto penso. E scopro che ho bisogno di pensare positivo anche in questo frangente. Non ho voglia di geremiadi e tantomeno di amici che esorcizzano la paura andando in cerca di colpevoli: la Cina, i politici, l’Europa, la gente che non capisce niente, i preti che non fanno le Messe, il Papa… Sì, anche lui poveraccio. Ho bisogno di pensare positivo, perché l’intelligenza ci è data per reagire, per ripristinare equilibri perduti. Oggi la chiamano resilienza, perché lo spirito vitale non può accettare che la sofferenza e il male abbiano l’ultima parola.
Ad assecondare il mio bisogno mi viene in soccorso la telefonata di una signora che mi vuol bene. Vive in Lessinia ed è piuttosto avanti con gli anni. Si informa sulla mia salute. Chiedo della sua. Mi risponde felice. È paradossale, mi spiega, ma è un momento magico. Mio marito è qui con me. Lui aggiusta orto e giardino. Io faccio le pulizie di casa, anticipando quelle pasquali. Mio figlio, separato, sta qui perché in questi giorni non può andare a morose, mentre mia nipote va a farci la spesa e tratta i nonni come se fossero dei principi. E poi chiosa inorgoglita: sembra che improvvisamente si siano accorti di quanto siamo importanti noi anziani.
È superfluo fare letture moralistiche. Un mese chiusi in casa non cambierà la storia, ma quello che verrà dopo non sarà più quello di prima. Sul crinale tra le due scenografie, quella del prima e quella del dopo, hanno soffiato venti che hanno scompigliato le carte restituendoci, prima di tutto, il senso della nostra fragilità, senza la quale il delirio di onnipotenza rischia di trascinarci dentro gli stili di un individualismo arrogante e disperato. Siamo fragili e questo ci ha fatto sentire il bisogno di radunarci come in una covata, per sentire insieme il calore rassicurante del nido. Abbiamo scoperto che da soli siamo perduti, risvegliando il desiderio di sentirci famiglia insieme. Una famiglia allargata, che i nostri antenati chiamavano Patria, e che oggi diventa il sentire all’unisono di un Paese. Ferito e orgoglioso nello stesso tempo.
E sul crinale ha soffiato anche il vento dello Spirito. Il vescovo di Milano, piccolo e immenso sulle guglie del Duomo, come un menestrello o come un poeta, ha innalzato un grido alla Bella Madunina. Un canto con le note fiduciose di un innamorato, perché un virus porta a misurarsi col senso del limite e della morte, ma è anche capace di risvegliare il bisogno e la certezza di infinito.
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