Strade e giardini
Non nel mio giardino. “L’importante è non averle sotto casa! Non è un mio problema. Dispiace vedere queste ragazze sulla strada ma se stanno lì è perché in fondo se la sono voluta”. Negli anni ’80 si definiva “borghese” un certo modo di pensare autoreferenziale.
Non nel mio giardino. “L’importante è non averle sotto casa! Non è un mio problema. Dispiace vedere queste ragazze sulla strada ma se stanno lì è perché in fondo se la sono voluta”. Negli anni ’80 si definiva “borghese” un certo modo di pensare autoreferenziale. Chi non si sporcava le mani, viveva in un proprio mondo che considerava migliore e riservato a pochi eletti. Borghese era colui il cui orizzonte non andava oltre il proprio naso, chi non condivideva l’impegno e l’entusiasmo per cambiare la storia e il mondo. E il termine aveva un retrogusto di biasimo e di disprezzo. Pensa a te, Mario, pensa solo a te! È la battuta che Giovanni – interpretato dal mitico Alberto Sordi – rivolge all’unico figlio sul quale aveva riposto tutte le proprie speranze e ambizioni nel celebre film di Monicelli Un borghese piccolo piccolo. Oggi non si usa più definire borghese chi si considera l’ombelico del mondo, chi “pensa solo a se stesso”, chi non vuole cambiare nulla perché tanto non cambierà nulla. È normale ed è un po’ di tutti. Oggi chi più chi meno ci siamo un po’ tutti imborghesiti. La sorte altrui non fa più parte del nostro panorama visivo e d’interessi. Il destino dell’altro non è più un destino comune. Eppure se scendi per strada, se le incontri e le guardi negli occhi, se chiedi ad una di loro: come stai? Non puoi rimanere indifferente, freddo, insensibile. Anzi. Senti tutta la differenza che passa tra l’affrontare un problema e incontrare una persona. È ciò che vorremmo raccontarvi in questo numero di Verona Fedele. Un reportage racconta di una notte spesa con i volontari dell’associazione Giovanni XXIII a incontrare queste ragazze. Perché – non so se ve ne siete accorti – il fenomeno è in aumento e sono sempre più giovani. Molte sono ragazzine. Come le nostre sorelle, nostre figlie e nipoti. Lo abbiamo già detto in numeri precedenti e lo ripetiamo ancora: la tolleranza culturale e amministrativa cui stiamo assistendo, quella tolleranza piccolo-borghese, distaccata e complice che circonda la prostituzione, deve finire. Deve finire perché non c’è nessuna donna che, come lavoro, voglia fare la prostituta. “Non chiamatele prostitute ma schiave della prostituzione. Il traffico di esseri umani e la prostituzione sono schiavitù moderne e crimini contro l’umanità”, ci ricorda Papa Francesco. Perché dietro una prostituta, c’è sempre qualcuno che ci guadagna economicamente. Ci sono soldi, un oceano di soldi. Per questo non bisogna criminalizzare la vittima ma penalizzare il cliente. Certo delle loro storie conosciamo poco. E non conosciamo le storie dei “clienti”. Un amico psicologo mi diceva: attenzione perché anche i “clienti” hanno una loro storia affettiva spesso complicata e traumatica. Vero. Ma non possiamo mettere vittima e cliente sullo stesso piano. Non conosciamo ciò che sta dietro al “rimprovero per le briciole sopra il tavolo sporco”. Briciole che come riporta la cronaca, hanno fatto scattare una violenza inaudita, assurda e insensata. Rimane il fatto che ogni relazione d’amore nella sua complessa articolazione di eros e agape, ha a che fare con l’alterità e quindi con la verità. Ci vuole coraggio per fermarsi, sedersi e ascoltare, dire e lasciarsi dire la verità. Ma è il coraggio di chi non accetta la logica del “non-è-affar-mio”, o al contrario che tollera tutto, perché tanto non cambierà mai niente. È il coraggio di chi accetta la sfida di allargare il proprio giardino.