Parole e politica
Ci sono parole che uccidono e parole che risanano. Parole che possono opprimere, umiliare, distruggere. E altre rispettare, apprezzare, ammirare. Ci sono parole come pietre. Parole come ali. Silenzi che parlano. E parole che non arrivano mai.
Ci sono parole che uccidono e parole che risanano. Parole che possono opprimere, umiliare, distruggere. E altre rispettare, apprezzare, ammirare. Ci sono parole come pietre. Parole come ali. Silenzi che parlano. E parole che non arrivano mai.
La morte di George Floyd a Minneapolis ha fatto esplodere negli Stati Uniti tensioni sociali mai del tutto assopite. In otto minuti, quello che era una resistenza a un pubblico ufficiale per aver usato una banconota da 20 dollari falsa per comperare un pacco di sigarette, diventa un omicidio mentre Floyd in manette e col ginocchio del poliziotto pressato sul collo supplica: «Non respiro! Please, please, please!».
A una settimana dall’omicidio Floyd, migliaia di persone sono scese in piazza per chiedere giustizia e manifestare contro la brutalità della polizia. In non pochi casi la protesta è degenerata in violenza e 40 sindaci di città reduci dal lockdown hanno ordinato il coprifuoco. Le manifestazioni sono per lo più pacifiche, ma troppo facilmente si infiltrano gruppi violenti che finiscono per trasformare la protesta in saccheggi, scontri con la polizia, rapine e negozi incendiati. Certo, George Floyd è l’ultimo di una lunga lista di afroamericani uccisi da poliziotti bianchi. Negli Stati Uniti le questioni di ordine pubblico spesso nascondono conflitti sociali latenti, abusi di potere, razzismo e discriminazioni nei confronti delle minoranze.
A fronte di tutto questo ti aspetti che la politica salga in cattedra e prenda la parola. Che ricostruisca la “narrazione” del vivere insieme. Ti aspetti una parola di riconciliazione. E cosa senti? «Legge e ordine: se non lo garantiscono governatori e sindaci, ci penserò io mobilitando l’esercito». Ma come, presidente Trump? È il momento in cui tutti ti chiedono parole che solo tu puoi dire. Parole propriamente politiche. Parole capaci di riannodare i legami, ricucire gli strappi, appianare monti e colli. Parole in grado di trasformare “le spade in vomeri, le lance in falci”. C’è bisogno di una parola che ricostruisca i significati per cui vale la pena vivere insieme tra neri e bianchi, yankee e latini, ricchi e poveri, poliziotti e normali cittadini. E tu riesci solo a dire: «Dovete usare la forza. Andate, sparate, arrestate e buttate la chiave»?
L’avanzare del populismo (in tutte le sue forme) ha prodotto per un verso capi tronfi e gesticolanti, il cui obiettivo è galvanizzare il proprio elettorato chiamato “popolo” e indicare negli altri il nemico, il problema, il capo espiatorio. Per un altro (soprattutto a casa nostra) ha sfornato uno stato paternalista che considera le libertà dei cittadini (anche qui in tutte le sue forme: dalla salute al lavoro, dalla libertà di coscienza all’educazione dei figli) una pura concessione ed elemosina di Stato. Quando sono assenti le “parole della politica”, il confronto dialettico, il pensiero critico, quando manca la narrazione delle buone ragioni della vita comune assistiamo non solo a presidenti “legge e ordine”, ma anche ad amministratori che fanno la parte di Dio «decidendo dove regalare la vita e dove far rischiare la morte» come ha affermato il commissario all’emergenza Domenico Arcuri. Oppure a governi che pensano di risolvere i gravissimi problemi economici con il bonus autonomi, il bonus per le vacanze, il bonus bebè, il bonus maternità, il bonus baby-sitting, il bonus mobilità, il bonus bici, il bonus libri...
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