Editoriale
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L’intreccio del prendersi cura

Il tempo di pandemia è stato un gigantesco promemoria delle nostre interconnessioni, delle relazioni che incrociano la vita di ciascuno...

Parole chiave: Editoriale (407), Renzo Beghini (62)

Il tempo di pandemia è stato un gigantesco promemoria delle nostre interconnessioni, delle relazioni che incrociano la vita di ciascuno. Il paradigma della salute condensa e ben esprime l’intreccio: la salute delle persone è legata alla salute dell’economia, la salute del pianeta impatta sulla salute delle istituzioni internazionali, la salute della democrazia è una spia accesa sulla salute delle società. Ce lo ricorda l’enciclica Laudato si’: “tutto è connesso”.
Papa Francesco mette in guardia dalla superficialità e dalla falsa percezione di chi vede soltanto l’incentivo individuale, e solo quando si supera la soglia critica, prende coscienza dell’importanza del bene comune. “Molte volte si prendono misure solo quando si sono prodotti effetti irreversibili per la salute delle persone”. Non possiamo permetterci di lasciare alle future generazioni, il fallimento scriteriato delle decisioni non prese.
Per questo ci dobbiamo occupare di situazioni come il progetto di una discarica di “Car Fluff” in località De Morta nel comune di Sorgà. De Morta. Un nome che è tutto un programma. Un luogo che non dice niente a nessuno perché è terra di confine. Eppure proprio lì si gioca una partita di futuro prossimo e di cui è fondamentale prenderci cura. Perché si tratta della cura della casa comune. La cura esprime responsabilità. È in gioco la nostra dimensione filiale nella vita. Uno sguardo critico alla post-modernità ci fa intuire che proprio questo è il punto debole della libertà odierna: l’illusione che per vivere bisogna operare un’uccisione simbolica, quella di Dio Padre. In realtà, solo la consapevolezza di essere figli smonta ogni delirio di onnipotenza e ci ricostituisce partecipi delle relazioni fondamentali con il creato e con gli altri.  
La crisi ambientale esprime alla radice una crisi antropologica. Prima ancora che sentirci chiamati ad aver cura della creazione, dobbiamo riscoprire che “siamo soggetti di cura”. Questa è la nostra identità più profonda. Ciò accade a partire dalle situazioni più fragili e vulnerabili, più povere ed emarginate. Alla fragilità del creato corrisponde la fragilità dell’uomo. Lo abbiamo ben compreso in occasione della pandemia. Ma il passaggio culturale che ci attende non si limita alla consapevolezza della nostra vulnerabilità. Abbiamo bisogno di convertirci alla fraternità: solo insieme e attraverso scelte condivise si creano le condizioni per abitare da figli la terra. Mentre ci prendiamo cura del creato ci accorgiamo che Dio, tramite il creato, si prende cura di noi. E mentre ci prendiamo cura dei fratelli più fragili, ci rendiamo conto che ci prendiamo cura di noi stessi. C’è una cura reciproca che custodisce la salute dell’uomo e delle creature.
Le tentazioni culturali del nostro tempo dicono un deficit di cura: da una parte, infatti, l’inquinamento e il degrado hanno reso invivibili territori e quartieri, dall’altra il salutismo, che riempie le palestre e fa rincorrere le diete più svariate, rivela un’umanità ripiegata su di sé. C’è da fare un lavoro culturale nelle nostre comunità cristiane e nelle nostre città per sensibilizzarci al «custodire e coltivare» (Gen 2,15) la terra: siamo semplicemente figli e fratelli. Lo scrive molto bene papa Francesco: «Il dolore, l’incertezza, il timore e la consapevolezza dei propri limiti che la pandemia ha suscitato, fanno risuonare l’appello a ripensare i nostri stili di vita, le nostre relazioni, l’organizzazione delle nostre società e soprattutto il senso della nostra esistenza» (FT 33). La fraternità e la speranza passano attraverso il «prendersi cura».

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