Due facce. Due volti. Due voti
Verona oggi è questo. C’è poco da fare.
Da una parte la faccia triste della Fondazione Arena sulla strada della liquidazione coatta, dall’altra la faccia felice del 50° Vinitaly.
Ma è la stessa città oppure sono due città diverse?
Verona oggi è questo. C’è poco da fare.
Da una parte la faccia triste della Fondazione Arena sulla strada della liquidazione coatta, dall’altra la faccia felice del 50° Vinitaly.
Ma è la stessa città oppure sono due città diverse?
La prima incapace di far sistema, di affrontare e risolvere i problemi. Una città provinciale. Gente litigiosa, con una gestione fallimentare del bene pubblico, che va alla rendita di posizione e che cerca lo scontro a muso duro senza un ‘piano B’. Una città fatta di beghe, rivendicazioni, dove l’unica logica possibile che spiega le scelte, sembra essere il tanto peggio - tanto meglio.
La seconda è una città di eccellenza che ha portato a sistema il lavoro, il genio, la passione e la competenza di centinaia di persone. Una robusta filiera, una visione strategica e una capacità organizzativa (che solo per fare un esempio, separa il business dai wine lovers) riconosciuta da tutti.
L’Italia di successo è qui al Vinitaly, ha detto domenica scorsa il Presidente Mattarella. Un tassello di quel marchio Doc che riguarda tutti noi, da Nord a Sud, dal piccolo al grande centro: è il marchio Italia. Da questo marchio dipende molto del nostro futuro e di quello dei nostri figli.
Applausi su applausi.
Là, invece, solo due voti. Quelli che sono bastati per far saltare il banco della Fondazione, dopo mesi di trattative e alla vigilia di un festival che crea da sempre un importante indotto culturale, economico, turistico e occupazionale.
Fortunatamente il sindacato ha voci diverse. Rimane comunque miope e fuori dal tempo la gestione sindacale di chi ha bocciato l’intesa. Partita da 65 esuberi e buste paga giù del 30%, dopo mesi di trattative si è giunti ad un’ipotesi di accordo che garantiva occupazione, scivoli in uscita e mini tagli agli stipendi del 10%.
Possibile non rendersi conto che la Fondazione Arena è un bene pubblico?
Che lavorare in un ente del genere comporta una responsabilità pubblica?
Dove responsabilità significa l’obbligo morale di rispondere ad una comunità. Certo questo vale per tutti, per lavoratori e per dirigenti. La vicenda però si è svolta come una prova di forza su chi alla fine farà valere il proprio peso a livello contrattuale e politico.
Ma possibile non rendersi conto che abbiamo consegnato le sorti della Fondazione Arena e quindi un patrimonio della città, ad un referendum dove alla fine hanno deciso due voti? Invece no. Muso duro, un referendum sconsiderato e, due dicansi due, voti demenziali.
Per carità. È sacro il diritto di esprimere il proprio consenso. Lo si chiama democrazia. Ma ciò che avviene a scapito del bene comune è ancora democrazia? Doppio salto all’indietro, un bel respiro sovieticheggiante, et voilà, l’incubo della liquidazione coatta della Fondazione Arena è servito. Interruzione di tutti i rapporti di lavoro in essere, tutti i 283 dipendenti del teatro a casa. Via i simboli, via il bene comune, via il rispetto di sé. In nome di... boh. Rimane la domanda: qual è la città che vogliamo?