Cinema
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Una riflessione sulle fragilità umane

Manchester by the Sea
(Usa, 2016)
regia: Kenneth Lonergan
con: Casey Affleck, Lucas Hedges, Michelle Williams, Kyle Chandler
durata: 135’

Parole chiave: Su grande schermo (1), Manchester by the Sea (1), cinema (103)
Una riflessione sulle fragilità umane

Quando il miglior cinema americano si dedica a parlare della vita vera, sembra il miglior cinema europeo.
Sembrerebbe un paradosso, ma il film scritto e diretto da Kenneth Lonergan ha più parentele con autori come Ken Loach (per il risvolto sociale) o Ingmar Bergman (per gli intrecci famigliari) che non con i megacarrozzoni in voga da molti anni.
Non a caso è stato presentato al Sundance Film, il festival creato da Robert Redford per dar spazio a produzioni indipendenti e nuove idee.
Qui si parla di famiglie. Scalcinate. Pericolanti. A volte franate del tutto. Ferite e ferite a morte. È il peso del mondo che porta con sguardo attonito e spalle curve il protagonista, Lee Chandler (Casey Affleck, premiato con l’Oscar come miglior interprete, così come il film ha ottenuto la statuetta per la miglior sceneggiatura originale). Lee vive a Boston, dove fa il tuttofare per un gruppo di condomini, fino a quando non riceve una telefonata che gli annuncia la morte del fratello Joe.
Lee torna così alla cittadina di origine, Manchester-by-the-Sea, dalla quale se ne era andato dopo una terribile tragedia che aveva coinvolto sua moglie e i suoi figli.
A Manchester Joe ha lasciato il figlio adolescente Patrick (Lucas Hedges) e la volontà testamentaria di affidargli come tutore proprio Lee.
Costruito con frequenti flash-back, a partire dall’inizio che stacca magnificamente dall’ambiente marino estivo a quello invernale di Boston, il film di Kenneth Lonergan, coadiuvato dalla splendida fotografia di Jody Lee Lipes, è una ricognizione accorata e dolente sulle fragilità umane e, insieme, una profonda riflessione su quanto il legame vero e intenso fra le persone può almeno far intravedere un barlume di speranza anche quando la disperazione sembra essere l’unica strada possibile.
C’è forse qualche eccesso di maniera nelle scelte musicali, soprattutto in quella del celeberrimo adagio in Sol minore per archi e organo (noto come “di Albinoni” ma scritto in realtà nel 1958 da Remo Giazotto).
C’è (ma questo non è responsabilità degli autori) un doppiaggio italiano abbastanza piatto, che farebbe venir il desiderio di poter vedere e ascoltare l’opera in originale.
Ma, esclusi questi, che in questo caso sono difetti veniali, siamo di fronte ad un ottimo film, come non si vedeva da tempo.

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