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L’esperienza di don Gigi che in una pieve toscana “cura” le anime ferite

di MARTA BICEGO
Il suo racconto al festival “Mescolanze” di Cerro induce a riflettere 

L’esperienza di don Gigi che in una pieve toscana “cura” le anime ferite

di MARTA BICEGO
Jeans, t-shirt blu, sandali ai piedi. Schietto, come il pane che sua madre metteva sulla tavola della cucina. Chi conosce don Luigi Verdi, Gigi per tutti, non è sorpreso da questa genuinità sottolineata dalla cadenza fiorentina: ne ascolta le parole che spaziano dal racconto di sé alla società di oggi. Che si rivolgono agli adulti e ai ragazzi. Che inducono a riflettere su temi importanti: l’amore, la paura, il coraggio, la fragilità, la bellezza.
Termini familiari per chi è stato a Romena, la fraternità che don Gigi ha fondato nel 1991 attorno alla pieve romanica di Romena, nel Casentino. In una valle della Toscana pervasa di spiritualità, tra Camaldoli e La Verna, divenuta crocevia per tanti viandanti del nostro tempo. Dove sostavano i pellegrini, ora si incrociano esistenze, spesso ferite: genitori che hanno perso un figlio. Adulti che sentono l’esigenza di fermarsi per riallacciare i rapporti con la propria autenticità o lenire il dolore. Famiglie in cerca di cura. Giovani in cammino. C’era uno spaccato di questa umanità all’incontro organizzato, nei giorni scorsi, con don Gigi nell’ambito del festival diffuso “Mescolanze”, a Cerro Veronese. Un dialogo iniziato a due voci – quella dell’ideatore della manifestazione, Marco Zanchi, e del sacerdote nato a San Giovanni Valdarno (Arezzo) nel 1958 – e poi proseguito da don Gigi nello spirito di Romena, come se si fosse ospiti di passaggio da quel “porto di terra” sempre aperto.
Com’è nato? «Da una mia crisi personale e spirituale dopo sette anni che ero prete. Ho chiesto un anno al vescovo e sono andato via. Ho preso lo zaino è sono stato per tre mesi in Bolivia dai campesinos e per tre mesi in Algeria dai tuareg», ha risposto il fondatore e responsabile della Fraternità di Romena. Al ritorno, ha detto al vescovo di Fiesole di voler iniziare nella pieve romanica un’esperienza nuova, per essere d’aiuto a chi sta affrontando un momento di difficoltà e far germogliare la bellezza della speranza dove c’è sofferenza. In questa scelta c’è molto dell’esperienza personale del religioso che ha confessato di essere venuto al mondo timidissimo, «senza il coraggio di guardare negli occhi le persone»; con «le dita tagliate e un piede fatto male, perché mia mamma aveva preso una medicina, il talidomide».
Grazie a un salmo, ha capito che la pietra scartata poteva diventare angolare: «Le crisi vanno sempre bene, il problema è attraversarle. Quando ci sei dentro, impazzisci. Ma se sei onesto, una crisi ti ripulisce, ti fa vedere quello che vale davvero e quello che non vale più nulla. Da lì siamo partiti». Avendo chiara la meta da raggiungere, che implica un cammino da affrontare, restando umili e riscoprendo la bellezza del «coraggio vero, quello che nasce dalla fame». Nella vita si cambia in tre modi, secondo don Luigi: «Perché si arriva a non poterne più; perché si ha fame; perché ci si innamora di qualcosa di più alto. Questo è il coraggio che ha bisogno di togliere di mezzo la paura», ha spiegato. «Quando si ha paura, la cosa più stupida è aggredire o scappare. Quando avete paura, fermatevi e fate un passo indietro. Aprite gli occhi e guardate meglio».
Bellezza, coraggio, paura, amore. Parole che si scoprono connesse tra loro e riconducono all’esperienza di Romena: «Dove c’è creatività e follia, non c’è stagnazione e tutto cambia di continuo. E una delle cose belle sono i giovani». Nuove generazioni che don Gigi vede sopraffatte dagli attacchi di panico, annoiate perché senza il futuro negli occhi, violente perché cresciute tra egoismo e paura. «I giovani sono il futuro e nella loro fragilità ci dicono che in questo mondo di matti ci manca l’aria. Siamo la generazione più schiava nella storia del mondo. E allora, lo diceva Gandhi: quando il tuo cuore diventa troppo pesante, apri la porta e scappa via». L’esortazione: non restare immobili, non aver paura di cadere, ma amare se stessi per trasformare la fragilità nella parte più bella di sé. La vita, vale da insegnamento per tutti, deve scorrere: «A Romena la pieve ha l’abside rivolta verso est, come a dire che non siamo chiamati dal passato, ma dal futuro».
È il motivo per cui a Romena c’è una “Via della resurrezione”, da percorrere anche nella società odierna che è fragile nelle emozioni, nei confini, nelle relazioni. Gesù quando ama, compie gesti molto umani: «Piange, lava i piedi agli amici, tocca la bara di un bambino morto». E noi, ha sottolineato, «le poche volte che riusciamo ad amare davvero, facciamo gesti divini. Nel Te Deum cantiamo “Quanto sei grande Dio”. Io credo che Dio, dal cielo, a volte faccia il suo inno per dire “Quanto sei grande uomo, quanto sei grande donna”. Perché davvero riusciamo a fare cose più alte di noi. E allora nella fragilità c’è tanta bellezza».
Un ultimo consiglio? La concretezza: «Tornare a toccare la vita», ha esortato. Come ha fatto san Francesco: a Greccio realizza il primo presepe vivente «per vedere una mamma che accarezza, un bambino che piange»; bussa al convento e viene respinto, però rimane gioioso. «Vi auguro la gioia anche se vi bastonano, non se va tutto bene. Troppo facile. Come dice Gandhi – ha concluso –, il problema non è aspettare che la pioggia finisca, ma saper ballare sotto la pioggia». 

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