«Io non sono la mia malattia!» perché Riccardo è molto di più
di BEATRICE CASTIONI
Artista di vaglia che trae dalla sua distrofia muscolare ispirazione e forza
di BEATRICE CASTIONI
«Se è vero che io non sono la mia malattia, non posso mai prescindere dal fatto che la mia malattia fa parte di me. Io comunque ho una resilienza spaventosa e so che anche lei ha dei limiti». Con queste parole il poveglianese Riccardo Cavallara parla di sé e della malattia che fa parte di lui sin dalla nascita, una grave forma di distrofia muscolare, la miopatia miotubulare, progressiva e altamente invalidante, che comunque non gli sta impedendo di viaggiare, vivere ed amare. Classe 1974, alle scuole superiori ha frequentato ragioneria per poi iscriversi all’Università di Verona e approfondire informatica, una delle sue passioni: è infatti un programmatore dall’età di 11 anni, ma possiede anche una spiccata vena artistica. Ecco che nel 2016 comincia a prendere lezioni di disegno, per assecondare l’esigenza di creare qualcosa di più fisico e materiale rispetto alla grafica al computer. Tre anni più tardi si affiancano a Riccardo alcuni assistenti, che formano con lui il collettivo “The Factory”: Gamini Chrisantha Kekulthotuwage Don, Vanessa Damini, Flavia Rossignoli e Francesca Sandrini, raggiunti più tardi anche da Ulrica Lunardon e Luisa Zanotto. Un modo di condividere l’arte e la necessità di comunicare all’esterno un sentimento, uno stato d’animo, un concetto che a parole diventa complesso e macchinoso.
Ma è questo che fa l’arte: comunicare senza bisogno di parole e spiegazioni. «Da quando ho cominciato a disegnare e dipingere – spiega Cavallara – sto studiando molto di più di quando facevo l’università; e io all’università ho sempre studiato tantissimo». I quadri astratti e sperimentali sono la forma di espressione che Riccardo preferisce, e tutte le sue opere contengono linee e curve calcolate con precise formule matematiche. Dalla pittura ad olio all’acrilica, alle composizioni tridimensionali che sembrano uscire e prendere vita direttamente dalla tela, Cavallara ama anche la musica (possiede diverse chitarre) e ha scritto canzoni e poesie. Un artista a 360 gradi riconosciuto da tutti nel suo paese natale, che ha dedicato tra i vari progetti tempo e risorse all’associazione di volontariato Gruppo Giovani Povegliano, che si dedica alla pubblicizzazione della cultura a Povegliano Veronese e che vede Cavallara tra i fondatori.
Per tutto il mese di ottobre inoltre è stato protagonista di Satya nella galleria Massella di Verona, mostra dedicata ai genitori e all’amico Samuele, scomparso prematuramente, in compagnia di artisti e amici che lo hanno raggiunto per festeggiare insieme l’ennesima esposizione di successo. Ma cosa significa davvero lasciare il segno? Regalare ai posteri una parte di sé, far sentire con forza la propria voce, quell’“esserci stato” che solo l’arte e le relazioni che si creano il prossimo, possono rendere eterno. Satya, il titolo della recente esposizione, in sanscrito significa verità: qual è la verità di Riccardo? Spiega Licia Massella, curatrice della mostra: «Le sue opere attraverso la sua sofferenza denunciano gravi problemi dell’umanità ed esprimono attraverso dei simboli la forza della natura nelle quattro stagioni, il trionfo dei colori, l’aspirazione ad una pace universale». Una pace che Riccardo trova nell’esorcizzare la sua malattia: «Tra le mie opere c’è Miopatia miotubulare, che spiega in astratto ciò che vivo ogni giorno. La X bianca rappresenta la mia malattia perché essa è situata sul cromosoma X. La X è frastagliata perché la mia è una malattia progressiva, quindi col passare del tempo continua a peggiorare. I colori cupi del bordo rappresentano la difficoltà che da giovanissimo avevo nell’accettazione della mia condizione, accostati ai colori più vivaci e brillanti del periodo dell’adolescenza, quando ho maturato un rapporto sereno con quello con cui avevo a che fare. La mia malattia fa parte di me, ma ricordiamo che io non sono la mia malattia! Era stato detto ai miei genitori che, appena nato, non sarei sopravvissuto se non nelle successive ore. E invece sono ancora qui. Sono handicappato? Certamente. Questo termine deriva dall’unione delle parole “mano” e “berretto” e ha origine dalle corse dei cavalli. Quando un cavallo fortissimo gareggiava con altri più scarsi, il suo fantino doveva correre tutto il tempo con una mano calcata sul berretto per la grande velocità. Questo cosa significa? Che handicappato non indica la persona più debole, ma quella più forte. Tanto più forte che, per riuscire a batterla, devi mettergli sulla strada una difficoltà ulteriore rispetto a tutti gli altri». Canzoni, poemi, tele bianche colorate di sogni e incubi, di chiari e scuri. Quante forme ha la bellezza, ma soprattutto cos’è? Risponde Riccardo: «La bellezza inizia nel momento in cui inizi ad essere te stesso».
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