Il reduce Cesare: 101 anni di ricordi della guerra che fu
di EMILIO BOARETTO
Sopravvissuto al fronte africano, tornò nel 1947. Nelle sue parole, un viaggio nella memoria da conservare
di EMILIO BOARETTO
«Io sono stato fortunato, sempre fortunato, tanto fortunato». Comincia così il racconto di Cesare Chiaffoni, classe 1920, reduce della Campagna del Nordafrica (1940-1943) e ora residente a Vago di Lavagno. Perché la storia c’è chi la scrive e chi la racconta, ma soprattutto chi la fa, e Cesare quella storia che è la sua, ma che è di tutti, ha contribuito a costruirla in prima persona.
«Fui assoldato il 2 febbraio del 1940, dattilografo al quartier generale della Divisione motorizzata Trento, avevo 19 anni e mezzo. Posso dire di aver sempre fatto il mio dovere senza reclamare, sia durante che dopo la guerra. Da soldato non mi sono mai lamentato, da dipendente non ho mai chiesto degli aumenti. Credo che questa mia tesi in qualche modo mi abbia favorito nella vita».
Mancavano solo pochi mesi da quel febbraio al giugno del 1940, quando il teatro della guerra si estese fino al deserto nordafricano, per lì rimanere fino al maggio del 1943, quando gli Alleati costrinsero le truppe italo-tedesche alla ritirata da El Alamein verso la Tunisia, forzando l’assedio sulla linea del Mareth e mettendo definitivamente fine alla Campagna nordafricana.
«Alla fine del ’40, dopo una brevissima parentesi al fronte francese, intorno a Natale, ci dissero che saremmo partiti per l’Africa, così da Trento ci spostarono a Pinerolo e da lì, dopo il libero ordine di partenza, partimmo per Napoli. Ci imbarcammo sul “Conte Rosso” in direzione Tripoli ed ebbi il mio primo colpo di fortuna: quelli del viaggio successivo al mio affondarono».
Nei toni con cui ci racconta della sua esperienza, Chiaffoni lascia trapelare una voglia incontenibile di raccontare, di farsi trasportare dai ricordi che come dice lui «furono tutti belli e tutti brutti». Agedabia, Bengasi, Tobruch, Sollum, Sidi El Barrani fino a El Alamein, senza sottrarsi mai ai suoi doveri da soldato. «Un giorno mandarono 500 lire a mio padre “per il comportamento esemplare di suo figlio in battaglia”». Ma la guerra poi non era solo contro il nemico, ma contro i pidocchi, i campi minati, la sete e i guasti delle macchine e dei camion. «Cercavamo principalmente nafta e acqua, a noi le munizioni non interessavano» (ride, ndr).
Nel sovrapporsi di ricordi non manca quello per il fratello Piero, più giovane di due anni, «quando seppi che fu mandato in Africa con i complimenti della Divisione Ariete, mi mossi subito per averlo al mio fianco. Un giorno vidi un uomo vestito che sembrava un arabo, era lui. Non lo riconoscevo più, quando è arrivato al nostro campo ha cominciato a mangiare e da quel momento non ha più smesso. Il colonnello lasciò che rimanesse con noi, io ero sergente e prendevo un buon stipendio: davo i soldi a lui e all’attendente del colonnello e li mandavo al mercato a comprare datteri e uova».
Non mancano poi i ricordi più duri, quelli che danno ragione a Chiaffoni quando dice di essere stato davvero fortunato. «Prima di El Alamein mi ammalai e mi portarono in ospedale. Sulla strada verso Agedabia (la Balbia, ndr) ci fu un’incursione aerea degli inglesi. Dormivo sul retro del camion quando cominciò la sparatoria: l’autista abbandonò il mezzo, il camion finì in una scarpata, ma non si rovesciò. Scesi. Non ero più in grado di camminare dalla debolezza; riuscii a nascondermi dietro una siepe che sembrava di rosmarino. Mi guardai: non ero ferito; ritornai al camion e quando mi appoggiai alla centina per sostenermi notai che la mia borraccia era come un giglio: il foro di una pallottola da 20 mm che mi è passata qua (con la mano traccia la traiettoria vicino alla testa, ndr). Quel giorno ci furono 4 morti». Come doveva essere uccidere a bruciapelo un uomo di cui non si sapeva nulla… «Non ho mai provato a sparare. A El Daba eravamo appostati vicino al mare. Io piantai la tenda vicino alla riva per essere protetto dalla costa. Una mattina sentii aprirsi la tenda: era un inglese con una coperta a spalle, era stato abbattuto in una sparatoria aerea ed era lì che cercava acqua e cibo. Avremmo potuto ucciderci a vicenda, ma non successe niente».
Furono tre gli anni passati al fronte da Chiaffoni, ai quali vanno aggiunti almeno altrettanti anni di prigionia in Algeria. Tornò in Italia nel ’47. «Quando tornai mi misi a cercare lavoro: un amico mi disse che all’Uma (Utenti motori agricoli) cercavano un impiegato, un contratto da 7.000 lire al mese. Mi presentai tre giorni prima di cominciare, ma mi dissero che i sindacati, o chi non so, avevano mandato un altro. Mi cadde tutto addosso. Montai in bici e tornai piangendo da mia madre. Lei mi disse di non preoccuparmi, che tanto noi avevamo le botteghe (una di generi alimentari e una macelleria), ma io non volevo lavorare lì. Qualche tempo dopo mi chiamò lo stesso che mi mandò all’Uma, dicendomi di recarmi ai Magazzini Generali. Andai. Era il giovedì del Corpus Domini; fui assunto il giorno dopo, il 20 giugno, il giorno del mio compleanno. Mi offrirono uno stipendio di 17mila lire! A fine mese mi diedero la busta paga, arrivai a casa da mia madre che mi sembrava di toccare il cielo, mi disse: “Sai cosa devi fare? – era molto seria mia madre – prendi la bicicletta, torni indietro e vai a San Zeno in Monte e questi soldi li porti a don Calabria”. Così feci. Restai ai Magazzini per 35 anni».
«Scrivevo sempre a mia madre durante la guerra – continua –, tutti i giorni, e lei mi rispondeva tutti i giorni. Tante cose mie sono andate perse, ma nel 1993 mi venne in mano una sua lettera di 50 anni prima». Chiaffoni si alza e recupera un faldone con tutti i documenti del suo periodo da soldato: articoli di giornale, l’attestato con la croce al valor militare, la pagella di suo padre e… quella lettera dell’aprile del 1943. La legge ad alta voce e poi ci chiede di mettere qualche parola all’interno dell’articolo, perché il ricordo di sua madre è ciò di cui più gli importa di quel periodo. Così facciamo, anche in segno di ringraziamento per la testimonianza, rara, che ci ha regalato. Un grazie va anche al sindaco di Lavagno, Marco Padovani, per aver reso possibile questo incontro.
“Ciò che mi solleva e mi aiuta a vivere è il pensare che siete buoni, che la fede che fin dall’infanzia fece bello il vostro viso non viene meno, ma si fortifica. Non è vero Cesare e Piero miei tanto carissimi? Anche nella preghiera la mamma è vicina, mi vedete? Nel pomeriggio di ogni giorno, e precisamene dall’ore 3 alle 4, fino all’ora di aprire il negozio, pensate la mamma in chiesa. Un’ora di Adorazione faccio al giorno. Sono soletta con nostro Signore, e nella quiete della sua casa imploro con la fede viva di mamma grazia per voi, sì, tutta per voi, perché la vostra compagnia la sento proprio necessaria. Non meriterò mai lo sguardo del Signore, no, mai, ma non mi perdo d’animo e prego speranzosa nella Provvidenza che tutti protegge”.
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