«Il mio viaggio definitivo sulle orme del Signore»
di LUCA PASSARINI
Don Fabio Bejato: da promotore turistico al sacerdozio
di LUCA PASSARINI
«Sono figlio unico, ma ho sempre gustato la bellezza delle relazioni e della vita comune», ci svela don Fabio Bejato, 39 anni. «Sono cresciuto nel quartiere di Golosine, fino alla seconda media nella zona della parrocchia di San Giovanni Evangelista. Vivevo con i miei genitori, che mi hanno avuto quando erano quarantenni e, fino a quindici anni, con una nonna. Una grande formazione umana e spirituale l’ho avuta proprio in casa. I miei genitori mi hanno testimoniato con la loro vita cosa sia l’amore e cosa voglia dire il “per sempre”. Mia nonna è stata un grande esempio di forza: nata nel 1906, ha avuto quattro figli con mio nonno che, da partigiano, è stato ucciso il 26 aprile 1945 dai tedeschi in ritirata. Lei che aveva potuto studiare pochissimo e che ha dovuto fare i conti con la fame, il dolore, la fatica di crescere da sola dei figli segnati dalla perdita del padre, mi ha mostrato come la fede doni forza e voglia di vivere. Non dimenticherò mai la sua bella abitudine di recitare il Rosario da sola a letto prima di addormentarsi».
Anche fuori dall’ambiente familiare sono state importanti le relazioni, con una catechista di cui, più che le parole, ricorda la gentilezza e la bontà, insieme a qualche prete che gli ha testimoniato soprattutto la grande passione e cura. Da ragazzo, poi, l’ingresso nel mondo scout Agesci «che mi ha dato molto, mi ha fatto incontrare Cristo nelle relazioni fraterne e nelle celebrazioni; d’altronde è un’esperienza grande in cui hai la possibilità di gustare la natura, l’aria aperta, l’essenzialità, la semplicità di condividere canti e cose da fare».
Nell’età della preadolescenza, oltre che il cambio di casa e di parrocchia verso la vicina Santa Lucia Extra, anche un primo contatto con i percorsi vocazionali del Seminario Vescovile, con un pensiero alla possibilità di ingresso nella comunità del Minore che poi, però, non si è concretizzato. «In quegli anni – ricorda – è nata dentro di me una grande passione per le lingue straniere. Alle medie ho voluto a tutti i costi studiare tedesco, poi mi sono iscritto al Galilei, in quello che allora era il liceo sperimentale linguistico. La stessa passione e formazione l’ho portata avanti anche negli anni di università (mantenendomi con un lavoro estivo a contatto con tanti stranieri) ed è diventata una professione. Per diversi anni, infatti, ho lavorato presso un’agenzia di viaggi occupandomi in particolare di business travel ovvero di organizzare e coordinare trasferte per convegni e fiere, oltre che per esperienze di team building».
Insomma, per lavoro girava il mondo e poi manteneva forte il suo impegno come capo scout. Esperienze apparentemente diverse, ma che in Bejato hanno suscitato qualcosa di comune, che ricorda così: «Che fossi negli Stati Uniti alle prese con caldo o burrasche, oppure attorno al fuoco con il gruppo, avevo sempre con me la sensazione che la vita è bella, che c’è del bello dentro la creazione e dentro le persone, soprattutto nelle loro differenze. Ho avuto la fortuna di poter vivere il mio lavoro non solo come fare dei trasporti, ma come occasione di conoscere persone e culture diverse. Riconosco di aver sentito e gustato la bellezza di Dio non a partire dagli aspetti liturgici o dai tempi parrocchiali, ma proprio dalla varietà presente nella creazione, nelle storie personali e nei posti diversi. Questo respiro di bellezza era costante e affiorava quando mi trovavo solo in qualche parte del mondo, ma pure quando ero in uscita con gli scout. E sempre una domanda: come faccio ad avere a che fare sempre di più con questo bello?».
Contento del lavoro, delle relazioni in ambito professionale ed extra, del poter coltivare altre personali passioni come il teatro, gli tornava sempre in mente quello che è l’orizzonte della partenza di un capo scout: ovvero essere parte di una comunità dentro una strada che è la vita attraverso scelte di servizio e di fede. Continua don Fabio: «Il desiderio di dare ancora più forza e profondità a questi quattro pilastri – comunità, strada, servizio, fede – mi ha portato a riprendere in mano quella intuizione vocazionale che era emersa, pur piccola e semplice, da ragazzo. Ho frequentato alcuni incontri con i comboniani, capendo però che non era quella la strada. Quindi ho mandato una mail all’indirizzo del Seminario di Verona chiedendo se c’era qualcuno che avesse la possibilità e disponibilità di ascoltarmi e di aiutarmi a fare chiarezza. Dopo alcuni incontri con uno degli educatori, è arrivato il momento di scegliere e mi ricordo che ero in Alaska, davanti a un bel vulcano e con una pizza gigante».
Da quell’istantanea, quando aveva 28 anni, ecco che poi tutto è andato di corsa con il licenziamento, l’esperienza in Casa San Giovanni Battista e l’ingresso in Seminario Maggiore. «Quelli della formazione – ricorda – sono stati anni molto belli, soprattutto per la vita fraterna: io figlio unico mi sono ritrovato in una classe di 9, anche con sensibilità diverse. Inoltre per me è stato stimolante riprendere in mano i libri dopo anni che avevo concluso il mio percorso di studi. Non sono del resto mancate difficoltà e prove, come il dover rinunciare alla propria autonomia economica e l’essere chiamato ad entrare in relazione con persone sempre nuove e spesso con modi molto differenti dai miei».
Ordinato presbitero nel 2018 e inviato come vicario parrocchiale nell’unità pastorale di Villafranca, ha dovuto da subito confrontarsi con una grande mole di impegni e di richieste, rese ancora più delicate dall’emergenza Covid con tutte le sue incertezze, il rallentamento di alcuni cammini significativi e l’accelerazione della secolarizzazione.
«Non è stato facile – ci racconta – perché devi fare i conti con il tuo carattere, con le delusioni, con la voglia di fare in fretta che poi crea sempre problemi; ma vedo che la cosa importante, che dà sostegno e forza, è la vita fraterna, il volersi bene tra preti in canonica, il costruire relazioni belle con collaboratori e famiglie – che sono molte volte grandi testimonianze di fede e di umanità –, il lavorare nello spirito della comunione che ti permette anche di darti i giusti tempi di preghiera e di programmazione».
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