Per disabili e familiari la vita rimane in salita
Molte le conquiste ma serve un cambiamento di cultura. Non solo riabilitazione ma soprattutto integrazione sociale. Emancipazione e lavoro aiutano a dare serenità ai genitori
I tempi sono cambiati, per fortuna. Oggi le persone con disabilità possono contare su una diversa sensibilità da parte della comunità e su maggiori servizi per superare gli ostacoli quotidiani. Ma non è ancora sufficiente. Sono 3,1 milioni i disabili in Italia, 12 quelli toccati dalla non autosufficienza, che cresce con l’avanzare dell’età. Eppure la strada per la vera integrazione resta in salita. A renderla meno irta contribuiscono iniziative volte ad assicurare un presente e un futuro dignitoso a questi cittadini. Come i progetti di emancipazione e di supporto nella ricerca lavorativa portati avanti dal Centro don Calabria o le esperienze di vita autonoma dell’Agb.
Foto Kari Haraldsdatter Høglund@123RF.com
Disabilità tra ostacoli e diversi passi avanti
Non solo riabilitazione ma soprattutto integrazione sociale
“Occorre sviluppare gli anticorpi contro una cultura che considera alcune vite di serie A e altre di serie B: questo è un peccato sociale!”. Nel messaggio di papa Francesco del 3 dicembre scorso, in occasione della Giornata mondiale delle persone con disabilità, è insito il cuore della questione: all’aridità della discriminazione è da opporre una strategia culturale ben ragionata.
Nella geografia dell’Italia disegnata dall’Istat, la questione interessa 3,1 milioni di individui con un’incidenza più bassa in regioni quali Veneto, Lombardia e Valle d’Aosta; a essere maggiormente colpiti risultano gli anziani, infatti sono quasi 1,5 milioni gli ultrasettantacinquenni (di cui 990mila donne) che convivono con una qualche forma di disabilità. E con una popolazione destinata ad avere sempre più i capelli d’argento, capire oggi come fare fronte alla situazione di un domani molto vicino è tema di grande attualità.
Rispetto a cinque decenni fa, l’introduzione del welfare ha permesso di compiere numerosi passi in avanti. I cambiamenti sono stati importanti, segnala Roberto Nicolis, presidente della onlus “La grande sfida”. Primo tra tutti, esordisce, «l’inserimento, grazie a una legge che lo prevede, tra i banchi della scuola dell’obbligo di ragazzi con disabilità. Questo avviene in taluni casi con difficoltà per la formazione e il reperimento degli insegnanti di sostegno. Ma è ormai dato acquisito che, fin dalla prima infanzia per arrivare all’adolescenza, questa presenza in classe abitua le giovani generazioni a confrontarsi con chi ha delle difficoltà».
Altri progressi sono riconducibili alla creazione di servizi, sebbene non in maniera omogenea nel territorio nazionale: centri diurni, comunità alloggio, gruppi appartamento e case famiglia. «Risposte importanti all’esigenza di accoglienza di persone con disabilità psichica e psico-fisica. Altri miglioramenti sono stati fatti nell’ambito dell’inserimento lavorativo, in particolare per soggetti con difficoltà di tipo sensoriale o fisico, oppure verso chi ha un disagio psichico. Ed è bene ricordare che sono stati destinati dei fondi, tuttavia mancano i passaggi successivi e, in parallelo, a non essere cresciuta è la dimensione culturale», spiega il referente della onlus che usa la passione per lo sport come occasione di incontro e relazione col mondo della disabilità per far sentire ognuno parte di una comunità inclusiva. Propone poi un esempio, che suona come paradosso dei tempi attuali: da una parte siamo nel periodo della massima accettazione e accoglienza, fa notare, dall’altra viene attuata una selezione eugenetica con diagnosi prenatale per individuare i bambini affetti da sindrome di Down o trisomia 21 (spetta alla Francia il triste primato di aborti selettivi).
«La società dell’uguale e del perfetto, che non ci vuole mai secondi, accetta i disabili che arrivano primi alle gare: i “super-abili”, come Alex Zanardi e Bebe Vio, che sono certamente modelli di resilienza, di reazione e amore per la vita. Ma, insieme, ci sono tutti gli altri disabili che si fa più fatica ad accettare e accogliere perché non rientrano nella società della gloria e del modello dell’imperfezione trasformato in perfezione», evidenzia Nicolis.
Il gap è soprattutto culturale e richiede un cambiamento che deve toccare anche la Chiesa, a partire da un messaggio da tenere come riferimento nell’agire quotidiano: «Quello di Gesù che si è occupato di persone che avevano delle difficoltà, se non delle disabilità del cuore e dell’anima, del corpo e della mente. La vita è cambiata, ma servono ulteriori passaggi che crescendo in democrazia, umanità e diritti dobbiamo andare a sviluppare».
Per cultura intende azioni capaci di cambiare il modo di pensare e di migliorare la qualità di vita di tutti, che si possono tradurre nella realizzazione del bene comune: «Gesti di conoscenza, ricerca e relazioni. Per far capire che ci fa ammalare vivere distanti gli uni dagli altri. Ma per fare in modo che i disabili possano dire e dare il contenuto prezioso del loro punto di vista speciale di osservazione, bisogna metterli nella condizione di poterlo fare, quindi in una condizione di dignità», sottolinea.
Curare non è soltanto riabilitare, ma incontrarsi e far incontrare le persone: «Su questo c’è molto da fare per evitare di appiattirsi nella cultura dei servizi. Serve invece una cultura di comunità, dove chi apparentemente ha più bisogno è colui che ha molto da dare, quindi non rappresenta esclusivamente la domanda, ma l’offerta. Questo lo capisci nel momento in cui ti fai prossimo – conclude –: legame profondo che dobbiamo ritrovare». Pure per dare delle alternative alle famiglie che giustamente le chiedono e non vanno lasciate sole.
Marta Bicego
Figli di un dio minore solo per chi li considera diversi
Libro di Stella che vale più di cento trattati
Se il metro di misura è aver compiuto azioni straordinarie, la società non deve perder tempo a fare distinzioni tra chi è “diverso” e chi non lo è. A raccontarlo è Gian Antonio Stella nelle pagine del suo ultimo libro, Diversi: dettagliato excursus nelle pieghe della disabilità le cui molteplici tappe sono segnate da orrori, crimini, errori scientifici fino alla catastrofica illusione di voler a tutti i costi perfezionare l’uomo. Gli aneddoti che l’editorialista del Corriere della Sera ha snocciolato – in un incontro che nei giorni scorsi è stato promosso da Banco Bpm in collaborazione con libreria Jolly del libro, Prospettiva famiglia e La grande sfida onlus – attraversano i secoli. E vanno oltre i confini della comune immaginazione.
Dei viaggiatori, per esempio, che alla scoperta del Giappone si trovano davanti agli occhi schiere di piccole statue dai lineamenti infantili adornate con bavaglini, grembiulini, cuffiette colorate. «Abbandonati da secoli, se non da millenni, nei boschi. Sono i Jizo, ovvero il senso di colpa di centinaia di migliaia di genitori giapponesi per aver soppresso i loro bambini subito dopo la nascita perché non perfetti, perché in sovrannumero o perché donne», ha esordito il giornalista richiamando il fenomeno del mabiki, nel significato di estrarre da un giardino affollato le piante non ritenute necessarie. Uno sfoltimento (di vite) che si è protratto per centinaia di anni, non solamente nelle terre lontane del Sol levante. E che ha avuto un capitolo doloroso nell’Aktion T4: programma nazista di eutanasia, voluto da Hitler, che prevedeva la soppressione di persone affette da malattie genetiche inguaribili e da invalidità mentali.
La parabola dell’errore nel voler contenere la diversità attraversa tempi e luoghi. Per contro Stella riporta il modello di figure straordinarie. Da una parte c’è, agli sgoccioli di un’esistenza davvero speciale, l’astrofisico Stephen Hawking: sebbene muovesse solo la palpebra dell’occhio destro a causa di una malattia degenerativa, continuò a tenere conferenze e a rinnovare fino all’ultimo la prenotazione per il primo volo spaziale per turisti. Dall’altra parte, dodicimilacinquecento anni prima, c’è il suo avo preistorico: il cacciatore “Romito 8” che, sebbene paralizzato in seguito a una brutta caduta, riuscì a vivere ed essere utile agli altri grazie a ciò che gli era rimasto di intatto, i denti, che usava per masticare la canapa, le canne e legni teneri che i familiari usavano per realizzare cestini e corde.
Nel mezzo di una distanza segnata dallo spazio, tanti punti in comune: amore per la vita, forza di volontà, fantasia. Quell’afflato di resistenza che ha permesso a loro, insieme ad altri, «di riuscire piano piano a cambiare il mondo. Almeno un po’», riconosce. Una prospettiva di speranza, rispetto a numeri poco confortanti: «Sono 12 milioni gli italiani toccati da una grave disabilità, cioè dalla non autosufficienza. Il problema cresce con l’avanzare dell’età. E, scrive l’Ansa, tra dieci anni 6,3 milioni di anziani italiani non saranno autonomi. Numero che dovrebbe impressionare chi è in Parlamento ed è delegato a fare le leggi e gestire il nostro Paese. Ne sentite parlare? Mai», sottolinea.
Da qui, per aumentare la consapevolezza nella società, l’idea della pubblicazione (edizioni Solferino). Con certosina accuratezza, l’autore riesce a far affiorare dalla memoria e dal silenzio le azioni di milioni di anonimi “figli di un dio minore” i quali, in condizioni difficili, hanno avuto l’ardire di tirare fuori la propria unicità. Dal raffinato calligrafo senza braccia Thomas Schweicker, che l’imperatore Massimiliano d’Asburgo chiamò a corte per osservarne da vicino l’abilità, all’artista Frida Kahlo che, rendendo palese la propria disabilità, ha sfidato paure millenarie. Perché è nell’uscire fuori allo scoperto la chiave di volta possibile. Lo dimostra passando in rassegna le foto della campionessa di scherma Bebe Vio; dell’attore Robert De Niro col figlio Elliot, autistico. «Mattoni importanti per la costruzione di una società diversa. Gli esempi di questi uomini famosi, insieme alle loro fragilità quotidiane, servono più di qualsiasi libro – ha chiosato –. Ci porteranno a chiudere con quel passato in cui il disabile, come diceva Gramsci, veniva rinchiuso perché nessuno lo vedesse. Quel mondo lì, forse, non c’è più». [M. Bic.]
Dopo di noi e pure durante una angoscia da gestire
Emancipazione e lavoro aiutano a dare serenità ai genitori
L’autonomia si insegna (e si apprende) affrontando piccoli passi alla volta. Per esempio trascorrendo qualche giorno della settimana lontano da casa, diventando indipendenti nel cucinare il pranzo e la cena, gestendo il tempo libero, spostandosi con i mezzi pubblici, andando in posta o in biblioteca, curando la propria persona. Azioni facili, all’apparenza, che per alcune persone possono diventare ostacoli insormontabili nel vivere serenamente la quotidianità.
Della necessità di tendere la mano con gesti capaci di infondere sicurezza ha piena cognizione l’Associazione sindrome di Down (Agbd) che dal 2005 gestisce un appartamento a Quinto di Valpantena tra le cui mura viene svolto un programma di educazione all’autonomia; è stato acquistato grazie al contributo di Fondazione Cariverona e Banca Popolare di Verona. A questo spazio, cuore del progetto “Autonomamente”, se n’è aggiunto di recente un altro, nella stessa via. Di proprietà di Agec, è stato dato ad affitto calmierato all’Associazione di promozione persone Down, braccio operativo di Agbd fondato da alcuni genitori volontari, che si è presa carico dell’intervento di ristrutturazione dei locali per renderli nuovamente agibili e confortevoli dopo anni di dismissione.
È qui che adesso si alternano attività varie per coinvolgere adolescenti, ragazzi e adulti con sindrome di Down i quali, affiancati da operatori, partecipano a iniziative di accrescimento delle autonomie personali come laboratori per imparare a essere indipendenti nel fare la spesa o nel prendere un autobus. Nei quali, insomma, ricevono le coordinate giuste per mettersi alla prova in concreto nell’autonomia.
«Avevamo bisogno di questi spazi per sviluppare il “dopo di noi”, esperienze di semi-residenzialità per tre giorni alla settimana, che comprendono il weekend, destinate a piccoli gruppi di 4-5 persone adulte che hanno già sperimentato nell’altro appartamento l’autonomia e la vita al di fuori della famiglia», spiega la presidente di Agbd Paola Grigoletti. È quel passo in più che alcuni ragazzi riescono ad affrontare da soli, mentre altri hanno bisogno di ulteriore accompagnamento in un ambiente protetto, in prospettiva di quando non ci saranno più mamma e papà ad affiancarli. Diventare autonomi è un processo molto lungo, che non si può inquadrare in un’età anagrafica. Non è sufficiente infatti essere maggiorenni, prosegue, «servono relazioni. Fondamentale per loro è sentirsi parte di un gruppo».
E un affiatato gruppo, composto nello specifico da una ventina di volontari, è anche quello che ha partecipato alla sistemazione dell’appartamento. A comporne le fila, oltre all’instancabile Adriano Pedrolli e alla vicepresidente di Agbd Silvana Sperotto, è intervenuta la Stella mattutina, associazione attiva in Valpantena e nel mondo, che ha interamente curato la ristrutturazione dell’abitazione: dalla progettazione alle opere murarie, dal rifacimento degli impianti elettrici e idraulici alla posa di pavimenti e rivestimenti.
«Si tratta di una realtà che coinvolge da una parte artigiani in pensione della zona, che mettono a disposizione la loro esperienza; dall’altra parte, aiuta persone in condizione di svantaggio a trovare occupazione», evidenzia il referente della Stella mattutina, Paolo Melchiori, geometra che ha seguito giorno dopo giorno gli interventi. Il risultato? Sorprendente, rispondono, facendo un paragone tra il prima e il dopo: adesso a disposizione ci sono un ampio salone con cucina e salotto, un bagno, due camere da letto. «L’ideale per far star bene i nostri ragazzi», chiosa Grigoletti. E un bell’esempio di come mettere in pratica il “dopo di noi”: non tanto a parole, ma con i fatti.
Marta Bicego
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