La cura "in punta di mani" richiede grande sensibilità
di MARTA BICEGO
Il libro del fisiatra Renato Avesani fa meditare sul senso della riabilitazione
di MARTA BICEGO
«Scusi, ma lei è “dottore”, dottore?». Domanda, impertinente che Renato Avesani si è sentito formulare più volte da pazienti e familiari nel corso della sua carriera ultradecennale con il camice bianco per una branca nobile della medicina qual è la riabilitazione. La cura incentrata su tatto, osservazione, ascolto. Su una sensibilità, declinata in empatia, che il medico fisiatra non ha messo da parte nemmeno adesso che è in pensione, dopo aver lavorato per quarant’anni all’ospedale “Sacro Cuore don Calabria” di Negrar.
Dottore sì, eccome. Però In punta di mani, che è il titolo del libro in cui fa sintesi delle idee maturate nel praticare la sua professione, tutt’altro che cenerentola tra le specialità: «L’intento è far meditare sul senso della medicina, della cura, della riabilitazione – spiega –. Penso che spesso, per la velocità con cui al giorno d’oggi funzionano le cose, per la corsa alla tecnologia o all’ultima novità, non ci sia spazio sufficiente per fermarsi a riflettere. Tutte le esperienze della vita, se lasciano traccia, è meglio».
Con fermezza e insieme sensibilità, non senza qualche spunto di ironia, tratteggia com’è cambiata la riabilitazione. «La scelta del titolo non è casuale. Le mani sono l’emblema della mia professione e del gruppo che dirigevo. In riabilitazione il lavoro manuale è imprescindibile. Questo non significa essere detrattori rispetto alla tecnologia, che negli ultimi decenni ha creato strumenti incredibili e perfetti; ma non bisogna dimenticare che la cura è vicinanza. Pochissimi toccano il paziente, usano le mani, come a delegare tutto agli strumenti», prosegue il fisiatra. Sottolineatura utile pure per le giovani generazioni di medici che si stanno formando adesso, con la pandemia che ha contribuito piuttosto ad aggiungere distanza tra le persone che a creare vicinanza.
Tornando al quesito iniziale, dice: «In questi anni mi sono sentito profondamente medico. Pur avendo fatto pochissimo uso di farmaci, perché la mia professione esigeva anche altro, o della diagnostica raffinata, non perché non fosse utile. Credo di essere riuscito a creare la medicina intesa come misto di saperi e pensieri di filosofia, etica, psicologia, arte. Ora non è più così, ma amo pensare che dovrebbe tornare a essere», precisa.
La cura non è necessariamente velocità: da qui un elogio a una “lentezza” fatta di attese, di tempo che non è perso ma piuttosto utile in particolare nella riabilitazione; di accettazione della sofferenza che ha conosciuto di pari passo alla disabilità. «Tanto meno peserà quanto più c’è partecipazione, inserimento, opportunità a livello sociale e familiare – afferma –. Quello che vedo oggi come rischio è l’agire rapidamente e contingentare il recupero. Il gioco vero sul recupero o sul reinserimento inizia dopo ed è un lungo percorso. Questo mi è stato insegnato negli anni, l’ho sperimentato, ma si insegna molto meno per la fretta e la velocità. Questo pseudo abbandono della disabilità, trascorso un determinato tempo, ha per conseguenza altri problemi etici fondamentali legati alla sofferenza non condivisa come stanchezza di vivere, fine vita, richieste di eutanasia. Con un maggiore accompagnamento, le persone si sentirebbero più rassicurate».
Nelle pagine del libro, chiede infine scusa ai familiari e pazienti che ha incontrato: «In ogni attività esiste l’errore e riconoscere che è possibile sbagliare è d’aiuto alla professione e all’idea che gli altri hanno di essa. Si crede che la medicina sia infallibile, pura scienza, ma non è così. Si può sbagliare; e quando accade nei confronti delle persone, pesa. È giusto allora riconoscere i propri errori, per recuperare il rapporto medico-paziente. Chiedere scusa – conclude – fa parte delle professioni che si dedicano all’uomo».
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