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La Chiesa veronese proiettata verso il futuro

Tante attese e grandi sfide per la diocesi veronese nel 2018. Da dove cominciare in questo anno appena nato? Ne parliamo con mons. Ezio Falavegna, docente di teologia, parroco dei Santi Apostoli e vicario di Verona Centro.

Parole chiave: Falavegna (1), Chiesa (186), Diocesi (97), Pastorale (30), Verona (228)
Mons. Ezio Falavegna

– Don Ezio, tutti segnalano che ci troviamo di fronte a un tempo di forte trasformazione. Come sente questo momento sul piano della vita pastorale della comunità cristiana?
«Rispetto a non molti anni fa, ci troviamo in una stagione e in una situazione di vita sociale, culturale, religiosa, ampiamente cambiata; una complessità che non riusciamo a gestire; una cultura plurale dove i contesti di vita (famiglia, scuola...) non sono più spazi ordinari di comunicazione di fede; un venir meno di un tessuto popolare di fede; la presenza di sempre nuove agenzie che rispondono alla domanda di senso alla vita propria di ogni persona; la rincorsa di iniziative e strategie che talora ci creano ansia; vuoti di presenze che sembrano rimarcare un’inadeguatezza a far fronte alle nuove domande; il ripensamento di moduli pastorali, dalla rete parrocchiale ai vari ambiti di vita della comunità (iniziazione cristiana, pastorale giovanile, familiare). È questo il tempo in cui, come richiamato da papa Francesco, ci è chiesto di mantenere una “intimità itinerante”, un tempo nel quale è indispensabile non pretendere di mutare tutto, ma anche non dormire e cominciare a rinnovare qualcosa della nostra vita pastorale. Stiamo vivendo quello che Giovanni Paolo II chiamava “l’ora di una nuova fantasia della carità”. Certamente siamo chiamati ad operare con la consapevolezza del nostro limite, della nostra inadeguatezza rispetto ai molteplici interrogativi che ci vengono presentati».
– Nasce spontanea una domanda: come vivere questo momento senza cadere nella paura e nello scoraggiamento?
«Questa complessità è indubbiamente una sfida e necessariamente una provocazione che mettono in crisi, ma è anche una sollecitazione a darci da fare, trovando le risorse necessarie per stimolare una nuova consapevolezza della responsabilità formativa e pastorale, e generare di conseguenza un nuovo impegno. Per fare questo occorre operare il passaggio che il Papa ci ha indicato nella Evangelii Gaudium: da una pastorale di semplice conservazione, a una pastorale decisamente missionaria».
– C’è un compito specifico che ci attende per ricollocare la Chiesa dentro queste radicali trasformazioni, perché il tutto non si riduca a un semplice “cambio di vestito”?
«Certamente il primo compito è quello di riscoprire e coltivare la propria identità dentro una realtà complessa e mobile. Il vero rinnovamento richiede l’assunzione della domanda: “Chi è Gesù Cristo per me, per noi?”, la conversione dei singoli e prende forma all’interno di una comunità rinnovata. Una comunità che, come già marcatamente sottolineato dal Sinodo diocesano, torni a farsi discepola attraverso l’esperienza gioiosa di una relazione con il Vangelo che ha toccato e trasformato la propria vita e per questo può essere raccontata e diventare significativa anche per altri. La fatica che, oggi, come Chiesa ci appartiene, non è la mancanza di iniziative pastorali, ma il volto triste, insignificante e, forse, esasperatamente funzionale e utilitaristico della stessa comunità. Tornare ad essere e consegnare una comunità discepola, lasciando che la propria vita sia ispirata e prenda forma dal Vangelo di Gesù Cristo: una comunità che si fa testimone della fede con tutta se stessa. Il primo passo da compiere è il riconoscimento di una conversione da vivere, per ricollocare noi stessi al centro dell’esperienza del Cristo che annunciamo».
– In un contesto di crisi generale di rappresentatività e di partecipazione, di un indebolimento di legami di fede che rendono fragili le nostre comunità ecclesiali, quale può essere la risposta?
«Per abitare queste frontiere sociali, culturali, religiose è necessario consegnarci attraverso una forma ecclesiale che tutta insieme sia capace di vincere la paralisi con concentrazione e solidarietà. La risposta sta nella sinodalità, che riafferma la dignità battesimale di tutti i credenti e consente di fare esperienza di uno stile di corresponsabilità che domanda disponibilità all’ascolto e pazienza nel maturare assieme. La sinodalità è capace di generare sempre nuove forme di Chiesa. In quest’ottica va accompagnato anche il rinnovamento in atto nella nostra diocesi, nella forma delle unità pastorali. La sua validità sta nel valorizzare il radicamento territoriale – in continuità con una feconda tradizione pastorale – pensandolo tuttavia in modo nuovo, fedele al contesto attuale di maggiore mobilità delle persone, nella consapevolezza di una mutata relazione tra comunità cristiana e comunità civile».
– In questo percorso cosa suggerisce? C’è un punto di partenza?
«Indubbiamente il discernimento comunitario, che ha nel ministero del Vescovo il suo referente e il suo garante. È lo stile ecclesiale del discernimento che può aiutarci a intravedere la direzione e le tappe del cammino attraverso il quale trovare una possibile risposta alle attese e alle sfide di oggi. La Storia è il campo della missione della Chiesa e il luogo ove essa non solo opera, ma ascolta, discerne i segni della Parola. Questo impegno ci aiuta a fare i conti con la Storia, uscendo da una logica di intellettualismo e di spiritualismo, o da una rigidità autodifensiva che spesso diventano il luogo in cui ripararci dalla vita. Questo significa valorizzare e accrescere le potenzialità già presenti nella pastorale ordinaria, ma chiede anche il coraggio della novità che lo Spirito ci sollecita a riconoscere e ad accogliere».
– Infine, può consegnarci un “augurio pastorale” per le nostre comunità?
«Mi viene spontaneo riconsegnare quanto abbiamo già ascoltato nelle nostre assemblee liturgiche nell’ultima domenica dell’anno, quando l’apostolo Paolo scrive: “Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava”. È l’augurio ad andare, uscire, attraverso un cammino che ci veda capaci di essere una Chiesa che vive e che ha cura di servire la vivibilità della fede là dove siamo chiamati ad abitare, capaci di testimoniare con semplicità e coerenza che vale la pena investire sul Vangelo. Perché se accolto, è veramente in grado di dare sensatezza, bellezza e bontà al nostro essere uomini e donne».

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