«Il mio incubo in un libro: senza respiro ma con il bene attorno»
Giorgio Bertini, psicologo in pensione racconta la sua esperienza di malato di Covid-19
Godere di buona salute, fare una vita che potremmo definire normale, persino concedersi un bel viaggio in Etiopia, a 2.300 metri di altitudine. E poi, a distanza di appena qualche mese, ritrovarsi su un letto di ospedale, a un passo dall’essere intubati per riuscire a respirare...
Tutto può accadere nella vita, specie se di mezzo c’è un virus subdolo e contagiosissimo come il Coronavirus. L’ha sperimentato sulla propria pelle Giorgio Bertini, veronese di 66 anni, in pensione dall’anno scorso dopo 36 anni di lavoro come psicologo e psicoterapeuta, culminati con la responsabilità di un’Unità di psicologia dell’età evolutiva nell’azienda sanitaria locale, nell’area dell’ex Ulss 22. È stato investito dalla prima ondata della pandemia, in primavera: un’esperienza traumatica che ha voluto raccontare in un libro, intitolato Quando ti manca il respiro (distribuito nelle biblioteche cittadine e in vendita alla libreria Pagina 12). Righe autobiografiche, scritte con un linguaggio comprensibile da tutti, arricchite da racconti e approfondimenti scientifici.
– Com’è iniziata questa disavventura?
«Dal 26 marzo all’11 aprile sono stato ricoverato in ospedale dopo cinque giorni di febbre e tosse, passati a casa con la sola assistenza telefonica del medico di base. Lo stesso è accaduto a mia moglie. Abbiamo chiamato il 118 perché avevo difficoltà respiratorie e una saturazione molto bassa del sangue: ci hanno portato al pronto soccorso di Negrar, dove i tamponi hanno dato esito positivo. Mia moglie è stata dimessa alle 2 di notte, con febbre alta ma senza difficoltà respiratorie. Io, che lo scorso anno ho scoperto di avere una patologia autoimmune ai polmoni tenuta però sotto controllo, sono stato ricoverato per una polmonite bilaterale e interstiziale».
– Poi cos’è successo?
«Nei primi cinque giorni non miglioravo affatto; avevo apnee continue, soprattutto di notte, nonostante i farmaci. Non riuscivo a dormire: un po’ per il cortisone, ma soprattutto per la paura di lasciarmi andare e di non riuscire a respirare; così ho iniziato a scrivere un diario sul bloc notes del telefonino. Dipendevo dall’ossigeno: questa è una malattia che ti porta via il respiro. A un certo punto arrivò l’anestesista: mi spiegò che il giorno dopo sarei stato portato in terapia intensiva e intubato. Seguì una notte di lacrime, in cui morì pure il mio compagno di stanza: un signore di 83 anni, trapassato nella totale solitudine. Una cosa straziante. La mattina dopo ebbi dei lievi miglioramenti e questo mi fece scampare la terapia intensiva. Da lì in poi, un poco alla volta, con l’aiuto di molti medicinali sono riuscito a risalire la china, riducendo l’apporto di ossigeno. Le cure sanitarie e l’affetto di familiari e amici, le preghiere venute anche da lontano mi hanno permesso di ritornare a vivere».
– Finché è stato dimesso.
«Sì, sono rientrato a casa, dove ho fatto un mese di quarantena stretta insieme a mia moglie. Un’esperienza in cui abbiamo toccato con mano la solidarietà del vicinato. Abitiamo in un condominio di Borgo Venezia e subito alcuni vicini, accortisi che eravamo stati portati via con l’ambulanza, ci avevano lasciato dei bigliettini sotto la porta. Poi ci ha sorpreso il nostro giovane dirimpettaio, a casa in cassa integrazione; mandava dei messaggi al cellulare di mia moglie: “Sto preparando la pasta, ne volete un po’?” e ci lasciava il cibo in un piatto di plastica, davanti al nostro uscio. L’ha fatto 20 volte, tutti i giorni: un gesto concreto che ci ha fatto trovare un amico».
– Così la quarantena è stata un po’ meno pesante?
«Senza dubbio. Abbiamo visto le persone care dallo spioncino della porta d’ingresso, ci siamo sorpresi dei tanti segni di affetto. Certo, ci mancava la libertà di poter uscire, ma abbiamo trascorso le giornate camminando tra le stanze per riprendere fiato, leggendo molto e ascoltando degli audiolibri; io ho ingannato il tempo scrivendo metà del libro e parlando con le figlie usando la tecnologia».
– In queste pagine traspare la grande umanità del personale ospedaliero.
«Non posso che essere grato per le cure ricevute, fornite nei limiti di una situazione oggettivamente difficile, visto che avevano appena aperto il reparto Covid. E nonostante i necessari strati di protezione non favoriscano la comunicazione, ho sempre trovato sguardi di gentilezza e comprensione. Un conforto, perché questa malattia, specie nelle fasi più critiche, ci fa chiudere nel nostro dolore».
– Sulla sanità territoriale, invece, ha qualcosa da ridire, perché dopo le dimissioni non è più stato seguito...
«Soltanto le telefonate del servizio di vigilanza sono state assidue. Per il resto, nessuno mi ha chiamato per fissare un controllo o per offrire un aiuto psicologico. Siamo stati lasciati in totale abbandono. La pandemia ha messo allo scoperto la fragilità della medicina territoriale, causata dal continuo smantellamento dei servizi negli anni. E mentre gli ospedali da noi per ora stanno reggendo l’onda d’urto dell’emergenza sanitaria, pur con fatica, mi pare che dal punto di vista territoriale le cose non siano cambiate molto in questi mesi sul fronte delle cure domiciliari e del loro follow up».
– Come sta vivendo la seconda ondata del virus?
«Con la preoccupazione per ciò che sta accadendo e per la diffusione dei contagi. Non ho fatto un test sierologico per verificare la presenza di anticorpi, perciò vivo come vivono gli altri, proteggendomi e senza pensare di essere immune. Ritengo che le limitazioni siano giuste, anche se difficili da digerire, e comprendo le preoccupazioni economiche di chi sta avendo danni dalle chiusure e dalle restrizioni. Il problema però è la tenuta del sistema sanitario, che paghiamo con un limite alla nostra libertà».
– Ci saranno i negazionisti del virus, ma pure una maggioranza di individui responsabili, che hanno paura di ammalarsi e di contagiare gli altri, specie i familiari. È d’accordo?
«Sì, mi sembra che in linea di massima le persone abbiano recepito la situazione. Non sempre le comunicazioni ufficiali mi sono piaciute, sono state fatte passare con un certo tono paternalista; vedo tante persone incattivite e frustrate. Speriamo che si arrivi presto al vaccino. Ma sono dell’idea che comunque non potrà tornare tutto come prima: devono cambiare le nostre gerarchie di valori, che non sono certo i soldi e il successo; dobbiamo curare le relazioni vere, la solidarietà e l’ambiente in cui viviamo. Io, almeno, nel mio piccolo mi impegnerò in questo».
– Da esperto della psiche umana, che strascichi ci lascerà il nuovo Coronavirus, oltre a quelli fisici?
«In questi mesi siamo molto concentrati sulla cura del corpo, nell’urgenza del momento. Ci si preoccupa meno degli aspetti psicologici che il virus comporta soprattutto in bambini, adolescenti e anziani. Ha modificato le relazioni tra le persone; ha imposto la distanza fisica, razionalmente comprensibile, ma complicata da portare avanti; ha amplificato le nostre paure, talvolta trasformandole in fobie, anche a seguito di una comunicazione non incoraggiante, segnata dal martellamento dei numeri del contagio e da un certo terrorismo psicologico nello spiegare i provvedimenti restrittivi, che ha scompensato le persone più fragili. Ogni giorno siamo chiamati a trovare un nuovo equilibrio nostro, ma non tutti ci riescono. Ci saranno quindi delle cicatrici su questo versante, tutte da capire, che ci dovrebbero preoccupare fin d’ora. Ne vedremo le conseguenze, senza però avere a disposizione un vaccino per la salute mentale...».
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