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Covid un anno dopo: come sono cambiate le nostre esistenze

di NICOLA SALVAGNIN

9 marzo 2020: tutto chiuso. E siamo ancora lì...

Parole chiave: Covid-19 (90), Coronavirus (96)
Covid un anno dopo: come sono cambiate le nostre esistenze

di NICOLA SALVAGNIN

È cominciato tutto esattamente un anno fa, quando abbiamo capito in un istante che nulla sarebbe più stato come prima: chiusura in casa (il famoso lockdown) con movimenti limitati allo stretto indispensabile; chiusura di tantissime attività lavorative; chiusura di buona parte della nostra vita sociale. E tanti, tanti morti a causa di un Coronavirus arrivato dall’Est.
L’illusione estiva che il peggio fosse passato, si è appunto rivelata un’illusione. A settembre il contagio è ripartito in modo esponenziale, a novembre abbiamo rivissuto (in modalità un po’ diverse) il lockdown primaverile. Ad oggi siamo ancora lì. Sono arrivati i vaccini (tra l’altro vaccinarsi tutti sarà una cosa lunga) e si teme che le varianti del virus possano inficiare la protezione dei vaccini stessi. La bella stagione aiuterà, ma ormai abbiamo tutti la consapevolezza che appunto nulla tornerà come prima, almeno per alcuni anni.
Cosa abbiamo perso in questo anno? Tanto, troppo. Le cose belle, le conseguenze positive sono state infime, al confronto. Abbiamo imparato a fare il pane in casa e a fare acquisti on line, abbiamo riscoperto le passeggiate e la Lessinia, abbiamo dimostrato un senso civico notevole, qualcuno ci ha pure guadagnato o ha trovato nuova occupazione con i nuovi bisogni. Poco altro.
Di contro, abbiamo perso la nostra vita sociale fin nei gesti più banali e quotidiani: come lo stringersi la mano, l’abbracciarsi e lo scambiarsi un bacio, il mangiare assieme attorno a una tavola imbandita. Abbiamo perso in molti la vita, la salute, il lavoro, le relazioni anche con le persone più vicine. Abbiamo perso abitudini che davano il sapore alla nostra esistenza: trovarsi in compagnia, andare in vacanza, frequentare un cinema o un teatro, una fiera o un concerto, una sagra o una cerimonia.
Già, perché è diventato complicato pure sposarsi, ricevere i sacramenti, addirittura morire: a causa del Covid-19, senza che nessuno ti tenga la mano nell’ultima ora; per qualsiasi altra ragione, con funerali “difficili” e contingentati.
Si è persa per molti la pratica religiosa, per un determinato periodo di tempo pure vietata in presenza. E poi i Grest, i campiscuola, gli oratori, i circoli Noi, i Ceod (quanta sofferenza per chi li frequentava ed è stato obbligato a rinchiudersi in casa!), i parchi giochi, le biblioteche, la pratica sportiva fatta in gruppo, insomma qualsiasi attività che necessita del famigerato “contatto”, mentre è assolutamente necessario l’orrido “distanziamento”.
Sulla scuola siamo andati a continui compromessi, ma è certo che così non è scuola.
La cosa più orribile non è stata, non è la paura, ma la diffidenza che si è innestata in ognuno di noi rispetto all’altro. Possibile portatore di malattia, di problemi, di morte. Ma ancora non conosciamo bene l’entità dei danni provocati da questi 12 mesi di calvario collettivo: lo leggiamo bene nell’intervista qui sotto, mentre nella pagina accanto affrontiamo le conseguenze spirituali di questa pandemia.
Alla fine è andato tutto bene? No. Ce la faremo? Sì. La speranza è sempre l’ultima a morire.

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