Capelli d'argento, solitudine grigia
L'estate acuisce i problemi soprattutto per chi è anziano e senza una rete familiare o sociale di supporto
Non lasciamoli soli. Pare sia la solitudine una delle malattie più diffuse tra gli anziani. A essa si collega, a causa della perdita delle relazioni significative, la depressione che in età senile spesso si fatica a riconoscere nel momento dell’esordio. E non c’è pastiglia che possa essere somministrata per curare la forma di malessere legata all’abbandono, resa più acuta dall’individualismo dei tempi moderni.
Così scriveva don Waler Pertegato (allora direttore di Verona Fedele) in un fondo del 1970, sembra scritto ieri...
I vecchi hanno bisogno di affetto
Si sa, i vecchi non servono più, sono diventati un peso, occupano uno spazio tanto prezioso negli striminziti appartamenti moderni misurati (e pagati) a decimetri, e poi c’è in casa il tesorino che deve sgambettare… Così il vecchio “fastidioso” viene urtato sempre di più verso la porta, fino a quando non si decide di condurlo all’ospizio, chiamiamola pure casa di riposo. Lì almeno il posto c’è: enormi stanzoni, ampi corridoi, un letto e un piatto di minestra più o meno calda. Tristezza d’una civiltà sempre più ricca di mezzi e sempre più povera di sentimenti!
È ancora una volta il materialismo edonistico di singoli individui a prevalere, è la società “forte” (quella cioè dei giovani che pur diventeranno vecchi, se ne avranno il tempo) che schiaccia gli inermi, i deboli, gli esclusi, coloro che non hanno possibilità di difendersi, nemmeno con la pensione, spesso anche quella da fame. È la solita legge della giungla.
Comprendiamo, ben s’intende, che certi casi a livello familiare (quando, per esempio, anche la donna per necessità deve andare a lavorare) sono insostenibili. Ci riferiamo a quegli anziani malati, ridotti all’impotenza, bisognosi di assidua assistenza e cure particolari che solo in ambienti adatti possono trovare. Per costoro la casa di riposo o l’ospedale sono necessari e non è più questione di un egoismo che li rifiuta.
Ebbene, a questo riguardo non sono più i familiari o i parenti ad essere chiamati in causa, ma la comunità e chi la regge.
E la comunità, che pure ha ricevuto il sacrificio dei loro anni migliori, non si può accontentare di offrire un tetto sotto il quale i vecchi aspettino malinconicamente di morire, ma deve offrire un ambiente fatto non soltanto di muri, che assomigli quanto più possibile a una famiglia, dove il rispetto diventi affetto e la vita non si trascini tra i ricordi ma trascorra tra il sorriso di gente amica.
Anche quando la famiglia li rifiuta, la società non li può trascurare. Ora sappiamo che in Italia gli ospedali con reparti di gerontologia e di geriatria sono assai rari e i ricoveri per vecchi sono in tutto mille e settecento, di cui mille nel settentrione. Non si scopre l’America a dire che sono pochi e scarsamente attrezzati, naviganti spesso in gravi difficoltà finanziarie, con personale in gran parte generico e scarso anziché numeroso e altamente qualificato come dovrebbe essere, specie sotto il profilo psicologico, perché ogni ricoverato è a suo modo “malato”.
È anche una questione di mezzi che la società del benessere dovrebbe saper trovare, specie quando si vede che per altri bisogni fittizi i soldi ci sono fino allo… sperpero.
Intanto siano benedetti quei giovani che, senza mezzi, vanno a passare la domenica tra i vecchietti dei nostri ricoveri, facendoli così sentire meno soli e portando loro calore umano e gioia.
Di questo hanno soprattutto bisogno questi nostri fratelli dai capelli bianchi e dalle mani che tremano, perché essere vecchi non è un delitto, anche se la nostra «disumana» società tende a considerarla una colpa.
Walter Pertegato
Solitudine, una malattia per troppi anziani
L’estate acuisce un problema che sta crescendo negli anni
Non lasciamoli soli. Pare sia la solitudine una delle malattie più diffuse tra gli anziani. A essa si collega, a causa della perdita delle relazioni significative, la depressione che in età senile spesso si fatica a riconoscere nel momento dell’esordio. E non c’è pastiglia che possa essere somministrata per curare la forma di malessere legata all’abbandono, resa più acuta dall’individualismo dei tempi moderni.
In generale, quale antidoto, servirebbe una maggior attenzione da parte della società, anche nella semplice riscoperta della pratica del buon vicinato: volgere lo sguardo verso ciò che accade alla porta accanto per riuscire ad intercettare le situazioni di solitudine ed emarginazione. Un piccolo passo in avanti per evitare situazioni come quelle che finiscono con il riempire le cronache dei giornali: da Venezia, dove lo scorso marzo è stato rinvenuto il cadavere mummificato di un professore settantacinquenne morto nella sua abitazione da sette anni, fino a Verona, dove sono trascorsi almeno diciotto mesi prima della segnalazione della scomparsa di una sessantenne residente in un alloggio popolare.
Qualche sospetto i vicini l’avevano avuto, pare abbiano provato a intervenire. Sintomo che i segnali a cui prestare attenzione non mancano, anzi, talvolta sono evidenti: per i dirimpettai nel particolare; in generale per le istituzioni e i servizi sociali che, sentinelle del territorio, dovrebbero intercettare le situazioni più a rischio non soltanto di povertà, ma pure di emarginazione, per intervenire. Perché far in modo che i cittadini invecchino bene è un investimento sociale non indifferente.
Il binario su cui procedere è doppio: «Da una parte c’è la capacità di costruire reti di comunità tra la cittadinanza, il privato sociale, le agenzie territoriali; dall’altra parte è opportuno agire sulla prevenzione», evidenzia Mirella Zambello, presidente dell’Ordine degli assistenti sociali del Veneto. Sono coordinate che, in una società radicalmente trasformata e più votata all’individualismo rispetto al passato, chi oggi opera nell’ambito dei servizi sociali deve avere ben chiare nell’agenda delle priorità se vuole riuscire ad indirizzare in maniera mirata le proprie azioni. «Valorizzare le capacità delle persone e degli stessi anziani ancora attivi – prosegue –, permette di impostare servizi integrati, sociali ed assistenziali, con il valore relazionale aggiunto dell’apporto del volontariato, rigenerando le risorse delle stesse comunità, potenziando così contesti sociali più capaci di attivare risposte e creando un clima di maggior solidarietà. Inoltre risposte di questo tipo hanno costi nettamente inferiori rispetto a soluzioni che prevedono la residenzialità».
In Veneto, dove oltre il 25% della popolazione ha i capelli d’argento e necessità assistenziali talvolta elevate, «serve una continua messa a punto dell’organizzazione delle politiche sociali, per rispondere ai bisogni di assistenza sociosanitaria per le patologie che aumentano con l’invecchiamento, assieme a un elemento di raccordo per creare legami solidali laddove gli anziani rimangono da soli all’interno del nucleo familiare. Aspetti che, come assistenti sociali, ci interpellano perché bisogna evitare che le persone anziane conoscano la solitudine con problematiche di tipo assistenziale e sanitario che aumentano laddove manca una rete di solidarietà», sottolinea Zambello.
Molti progetti, alcuni dei quali germogliati in terra scaligera, supportano i soggetti fragili e a rischio di isolamento sociale, che può causare un amplificarsi delle patologie dal risvolto sanitario: «La solitudine incrementa fragilità che sono gestibili se esiste una rete di supporto. I centri diurni e ricreativi delle associazioni della terza età diventano dei punti di riferimento preziosi per chi vive solo e sono importantissimi per rompere il rischio dell’isolamento». Esperienze virtuose, che si basano sulla collaborazione tra mondo del volontariato e servizio pubblico, dove la competenza è spesso dei Comuni, ai quali spetta il ruolo di coordinamento. «L’agire in rete – continua la presidente – consente di non disperdere le energie e le risorse, raggiungendo i soggetti che hanno realmente bisogno e sono a rischio di isolamento. Chi versa in una situazione di disagio non sempre chiede aiuto, perciò molti casi devono essere individuati con attenzione nella società».
Di conseguenza, la figura dell’assistente sociale ha allargato le proprie competenze. «Non attende di fornire aiuto a chi chiede, ma ha una sensibilità sempre maggiore nel promuovere servizi rivolti agli anziani o alle famiglie pensando progetti, siglando collaborazioni, mettendo bene a frutto le disponibilità del volontariato – aggiunge –. Competenza che si sviluppa rispetto alla capacità di collaborazione con il Terzo settore e nella gestione delle risorse della comunità in parte per rispondere alla carenza di risorse, in parte per offrire servizi qualitativamente migliori e a misura di persona».
E il futuro, come si prospetta? «Servono più assistenti sociali e non è solamente una questione di categoria – chiosa Zambello –. Nelle politiche sociali diventano figure preziose perché la popolazione anziana aumenta e crescono le fragilità nei nuclei familiari, essendo venuti meno i legami delle famiglie e del vicinato. Bisogna realizzare progetti di comunità che supportino le persone in una determinata fase della vita, andando a prevenire l’amplificarsi dei casi di marginalità: per l’anziano e per l’adulto che rimane senza lavoro e rischia di cadere in depressione. Disagi che si incistano, evolvendo in casi sanitari se manca un intervento preventivo e di supporto, per esempio con l’inserimento dei soggetti fragili in contesti solidali adeguati. Oltre alla prevenzione, serve maggiore solidarietà da parte dei cittadini oltre alla partecipazione sociale». Insomma, per vincere la solitudine deve proliferare sempre più la cultura del prendersi cura.
Marta Bicego