Il cuore dell’odierna liturgia della Parola è il celebre e intenso “catechismo sulla preghiera” che Luca propone nel capitolo 11 del suo Vangelo. Significativa è la cornice narrativa degli insegnamenti di Gesù sul come e sul perché rivolgersi a Dio. Un discepolo invita Gesù ad insegnare una preghiera, proprio come avevano fatto il Battista e altri maestri del giudaismo che avevano consegnato ai loro discepoli un’invocazione spirituale distintiva. Gesù accoglie questa domanda e insegna la preghiera dell’Abbà, parola aramaica che esprime la confidenza verso Dio, e traducibile nella nostra lingua, secondo gli esperti, con “Caro padre; babbo; papà”. In questa parola di grande intimità gli studiosi sono inclini a sentire la stessa voce di Gesù che ha scelto arditamente un termine familiare ed immediato per rivolgersi a Dio. L’invocazione iniziale «Padre» dà il tono a tutta la preghiera e ne sintetizza il contenuto. Essa risente del modo di pregare tipico di Gesù, il quale si rivolge a Dio con la massima fiducia e libertà, utilizzando appunto l’appellativo familiare: Abbà. Non è questione di una formula nuova, ma di un rapporto diverso con Dio.C’è un altro elemento che caratterizza la preghiera del “Padre” secondo la versione dell’evangelista Luca. «Venga il tuo Regno» e «perdonaci i nostri peccati» sono i vertici delle due parti della preghiera: la prima legata al Tu di Dio ad espressione della lode e dell’adorazione; la seconda legata al noi, cioè all’esistenza quotidiana dell’uomo. L’incrocio fra queste due direzioni crea il senso della preghiera cristiana, che è un dialogo tra Dio Padre e i suoi figli. L’attesa e l’impegno per il Regno devono unirsi ed alimentare l’impegno concreto per il pane quotidiano; l’amore per Dio deve coniugarsi con l’amore che perdona i fratelli peccatori.La preghiera è poi accompagnata da un vivace commento in immagini che Gesù crea attraverso due brevi racconti. Il primo è quello del vicino importuno che di notte bussa alla porta con insistenza per ottenere ciò di cui ha bisogno. È questa una lezione trasparente sulla costanza, sulla fedeltà e sulla perseveranza nella preghiera. L’altro racconto presenta il dialogo tra un padre e suo figlio riguardo alle cose (pesce, serpe, uovo, scorpione) da chiedere e da dare. Da esso emerge la fiducia totale che il discepolo deve avere nei confronti di Dio Padre. Dio non è un estraneo indifferente o pericoloso; con Lui ci si può comportare con la libertà e la serenità con cui ci si rivolge a una persona amata, abbandonando esitazioni, convenzioni e timori.La preghiera al «Padre» è un respiro continuo dell’anima. Pregare è anzitutto chiamare in causa la presenza di un Tu: il Tu assoluto di Dio, con il quale si entra in un dialogo pieno di confidenza. Pregare è collocarsi alla presenza di questo Tu, avvertire la sua vicinanza e tuttavia sentire che è altro da noi, diverso e perciò non addomesticabile, non confinabile nei nostri orizzonti.La preghiera è anche invocazione di forza per impegnarsi nel trasformare la nostra vita e il mondo secondo il dono di Dio, perché quanto da Dio invochiamo, desideriamo e speriamo trovi la possibilità di fiorire già dentro questo mondo. Pregare perciò è invocare la presenza di Dio in ogni momento della vita. È cogliere il senso che Dio dà alla nostra storia, e offrire la nostra disponibilità ad impegnare tutte le nostre risorse perché questo si realizzi.