Introduzione alla lettera pastorale Sul limite
Dalle colline di Recanati, in una sera d’estate del 1819, un giovane favoloso, Giacomo Leopardi, si interrogava su questo mistero. Come può un ostacolo diventare apertura? Come può ciò che limita farsi infinito? Come può una barriera aprire lo sguardo alla trascendenza? Il poeta ci suggerisce una risposta, seduto in raccoglimento davanti a una siepe. Quella siepe gli impedisce di vedere oltre, ma non è un muro mortificante. È una soglia: il punto esatto dove il reale si apre al possibile. Dove l’occhio si arresta, l’immaginazione prende il volo verso «interminati spazi».
Chiunque di noi ha le proprie “siepi”: le dipendenze che ci condizionano, le paure che ci paralizzano, le ferite che ci definiscono, i fallimenti che ci isolano, le crisi che ci limitano, le malattie che ci rallentano, l’invecchiamento che ci indebolisce. Ma se Leopardi ha ragione, questi stessi ostacoli possono trasformarsi da muri in porte, da barriere in soglie.
Il fatto che il limite sia attraversabile non comporta fuga dal presente. «Sempre caro», dice il poeta, sono proprio «quest’ermo colle» e «questa siepe»: questi, nella loro concretezza singolare, nella loro unicità irripetibile. Solo che, in quell’attraversamento, compare altro. Il mondo sospeso si fa improvvisamente intenso. Costeggiando l’abisso dell’infinito, il cuore vacilla, ma quando il vento si lascia avvertire tra le fronde degli alberi, nasce una contemplazione più profonda. Quel mormorio della natura porta con sé l’eternità stessa. È allora che accade il miracolo del «dolce naufragare»: non la perdita di sé che spaventa, ma l’abbandono fiducioso a qualcosa di più grande.
Il “dolce naufragare” leopardiano è un antidoto potente alla cultura della performance. In una società che misura tutto in termini di efficienza e di risultati, imparare l’arte del naufragio diventa una competenza di sopravvivenza spirituale. Non rinunciare agli obiettivi, ma scoprire che il fallimento può essere una forma di vita più profonda e più libera dall’inessenziale.
In una cultura che promette tutto subito e che pretende efficienza a ogni costo, tale discorso non è affatto facile. Per questo, oggi vivere e non censurare il limite è un’opera quasi rivoluzionaria. Forse il nostro problema non è che abbiamo troppi limiti, ma che non sappiamo più riconoscere quelli che ci fanno bene. Abbiamo confuso la libertà con il campo totalmente aperto, dimenticando ciò che insegna anche l’arte: chi dipinge ha bisogno di una tela, chi compone ha bisogno di scale musicali, chi fa poesia ha bisogno del ritmo delle parole, chi danza ha bisogno di una coreografia. La scoperta leopardiana, dunque, porta con sé implicazioni profonde sul piano formativo.
Questa inquietudine può farci da bussola. Andiamo verso un dolce naufragio nell’immensità, alla ricerca di una relazione armonica – o per lo meno non dominante – con tutte le cose.
Il limite, la nostra finitezza, non è condanna, ma vocazione: solo accettando di essere limitati possiamo aprirci all’infinito che ci abita e che è pienamente compatibile con la carne umana. Questa verità trova una particolare espressione nella storia di un uomo che ha dovuto imparare ad abitare i propri limiti attraverso un cammino lungo e tortuoso: il patriarca Giacobbe.