di Luca Passarini
L’atrio attorno al Tempio: questo è come possiamo immaginare la Chiesa secondo la professoressa Stella Morra, teologa e docente presso la Pontificia università gregoriana. Specifica subito le caratteristiche dell’utilizzare un’immagine: «Ci permette di sperare, è polivalente perché ne apre molte altre, è parziale ovvero ha il limite di non essere sistematica e non coprire tutti i problemi».Riguardo quella che ci propone, spiega: «Se pensiamo all’atrio attorno al Tempio di Gerusalemme, così come ci è descritto dalla Bibbia, vediamo che è uno spazio poroso, che non ha una porta di accesso vincolante, ma è aperto e si entra ed esce liberamente verso l’impegno quotidiano della città, passando tra le colonne. Qui si incontrano uomini e donne, ebrei e gentili, gente con interessi differenti e pure con convinzioni diverse. È il luogo in cui si traffica la vita, con tutto quello che si è e si ha, per cui ci sono i mercanti che Gesù scaccia, ma anche le mamme che acquistano l’animale per il riscatto del primogenito». Siamo vicini al Santo dei santi, l’area più sacra del Tempio in cui si manifestava la presenza di Dio in mezzo al suo popolo; questo però è lo spazio delle relazioni libere e gratuite. La teologa suggerisce: «Quando un figlio diventa grande, una mamma accetta che non abbia orari, che passi da casa quando può, che magari le chieda solo di stirare le camicie dopo giorni che non la vede; non si arrabbia più di tanto e lo vede come il modo per mantenere il legame». Pure nella Chiesa la questione è di vivere la relazione in una maniera plausibile nelle diverse fasi e condizioni dell’esistenza.Aggiunge: «Questa immagine non è mia personale, ma nasce dal confronto con un gruppo di persone e dall’interazione con la realtà. L’abbiamo fatta nostra con alcuni giovani che si ritrovavano a diventare adulti e quindi alle prese con nuove possibilità e priorità nella vita. Nella mentalità comune ci si è quasi rassegnati che a trent’anni una persona si allontana da una presenza protagonista nella Chiesa per poi magari tornarci da anziano, perché nel frattempo c’è la famiglia, una professione da iniziare, ritmi più sostenuti... Noi, dopo anni di impegno in realtà come Agesci, Azione cattolica o altre, ci siamo detti che avevamo comunque bisogno di uno spazio comune che ci permettesse di continuare a crescere nella fede, pur con ritmi e modalità diverse per ognuno». Da questa considerazione concreta e non solo intellettuale è nata un’esperienza – l’Atrio dei Gentili – che continua da alcuni decenni con la proposta di una lectio divina mensile – che con alcuni altri specifici momenti è il loro Santo dei santi – e di appuntamenti vari legati alle competenze, possibilità e passioni di ciascuno, a cui si accede proprio come a un porticato. «Per un periodo, alcuni che lavoravano nella distribuzione cinematografica hanno proposto di trovarsi il sabato sera per vedere un film e stare insieme; qualche volta è una persona con competenze teologiche a farci entrare in determinate questioni; in altre situazioni sono professionisti che magari ci aiutano a capire meglio alcune dinamiche internazionali che spesso dai giornali non riusciamo a cogliere pienamente. Da qualche tempo, abbiamo iniziato a proporre quella che chiamiamo “La Messa che si prende il suo tempo”: in una società che va di fretta e non ha mai tempo per fermarsi, c’è chi ha sentito il desiderio di regalarsi un momento disteso di condivisione della Parola in preparazione all’Eucaristia; per rispondere alle esigenze concrete, non può mancare il servizio di baby-sitteraggio». L’origine di questa associazione culturale è nella diocesi di Fossano (Cuneo), che da secoli ha a che fare, anche per questioni geografiche, sociali e numeriche, con una particolare sensibilità laicale. Due gli aspetti importanti che l’intera comunità ecclesiale può prendere da questa esperienza specifica. Il primo viene dall’immagine dell’atrio, ovvero da quella caratteristica della gratuità che, secondo la docente, spesso viene a mancare negli ambienti parrocchiali e diocesani: «Tanti sono presi da una logica aziendalista per cui tutto è pensato per avere risultati, persone che si aggiungono, obiettivi da centrare. La vera conversione, intesa non da un punto di vista morale ma come trasformazione, è di dare con gratuità, accogliere, far sentire a casa, accettando che l’altro prenda quello che gli serve senza la pretesa che lui a sua volta dia qualcosa. Non dobbiamo strumentalizzare tutto e allo stesso tempo fidarci dell’opera di Dio, che vale molto di più di quello che facciamo noi, e delle persone, che poi sanno anche dare a loro volta gratuitamente, a condizione di non sentirsi usate».L’altro aspetto richiama al Santo dei santi, che dà senso a tutto il resto: «Occorre rimettere davvero al centro la Parola di Dio e la celebrazione eucaristica, che spesso rischiano di risultare quasi secondarie rispetto alla catechesi o a tante altre proposte. Siamo quasi ossessionati da queste ultime, dimenticando ciò che è a fondamento di tutto». Parlando di questo, sottolinea: «Ci è difficile cambiare ritmo e priorità, perché serve il coraggio di lasciare alcuni schemi che sentiamo stretti, da funzionari esecutori, ma che ci danno sicurezza, soprattutto perché altri ci hanno detto di portarli avanti, per tentare vie per le quali dobbiamo prenderci responsabilità e anche permetterci di sbagliare, chiedere scusa, correggere. Diventa però imprescindibile mutare, perché ci stiamo accorgendo che, mentre facciamo tanto in nome dell’attenzione all’altro, non ci stiamo prendendo cura di noi e del nostro cammino di fede, per cui c’è una sorta di distorsione: generosamente facciamo tanto in parrocchia, ma poi dobbiamo andare a ricaricarci fuori, quasi che non sia lì il luogo del cammino di fede». Guardando poi alla Chiesa italiana, pure dal suo punto di vista di membro della commissione teologica del Sinodo, si dice molto speranzosa: «Siamo una bella Chiesa, che non è clericale, ha senso di ecclesialità, che vuole costruire insieme e che brilla per generosità e buone intenzioni. Stanno anche emergendo quelle competenze che ci permetteranno sempre maggiormente di stare nella complessità odierna, senza cercare risposte semplicistiche».