«Le fiabe non sono favole, perché non raccontano sciocchezze, non dicono banalità»: sono le parole del filosofo Silvano Petrosino a Poeti sociali. Tra i tanti incontri della rassegna, per me quello con il docente milanese era tra i più attesi, perché mio compagno di tanti momenti del lockdown, tramite le registrazioni dei suoi interventi caricati su YouTube.
A saperle leggere, sostiene Petrosino, non sono racconti per bambini, ma per adulti; dicono delle verità, fanno emergere aspetti importanti dell’esperienza umana; con il consiglio di andare all’originale «non alla versione della Walt Disney che ne ha fatto una semplificazione». Cosa ci possono insegnare le fiabe?
Nella vita di ciascuno è iscritta la chiamata a compiersi, a diventare uomini e donne, «che nelle fiabe spesso prende l’immagine delle nozze».
Per arrivare a questo c’è da compiere un viaggio, il cammino della vita, che è un percorso difficile, drammatico, perché fa incontrare difficoltà, ostacoli, tentazioni, conflitti, che spesso hanno a che fare con le altre persone, con la loro cattiveria, invidia, mancanza di appoggio, pure da quelli da cui non ce lo si sarebbe mai aspettato.
In ogni vita, poi, c’è sempre un finale;e non è detto che sia “e vissero tutti felici e contenti”: può, infatti, essere il diventare adulti, oppure il fare una brutta fine. Questo lo si coglie nelle fiabe perché non tutti i protagonisti finiscono bene – come Cappuccetto rosso che nella versione di Charles Perrault, il primo a metterla per iscritto nel 1697, viene mangiata dal lupo perché si fida della sua finta (e pericolosa) gentilezza – e perché «noi siamo allo stesso tempo tutti i personaggi, perché a volte ci comportiamo come il cacciatore, altre come le sorellastre».
Ad essere decisiva è la capacità e la volontà di scegliere quali “no” e quali “sì” dire nella vita, perché come per Cenerentola c’è il momento di scappare dal principe e quello in cui farsi trovare.
Infine, le fiabe ci mettono davanti un grande pericolo che riguarda tutti, ovvero «quando le attese diventano pretese»: possono essere le nostre, che ci fanno diventare schiavi e affamati del possedere – anche le persone –, o pure quelle degli altri, per le quali «come le sorellastre di Cenerentola possiamo arrivare a tagliare una parte di noi stessi». Si finge di essere qualcun altro, inevitabilmente si perde la propria vita – un fiume di sangue nella versione dei fratelli Grimm – e ci si ritrova ciechi, non per la vendetta di qualcuno, ma per una verità che la storia prima o poi porta sempre a galla.