Nei mesi scorsi abbiamo ricordato l’ottantesimo anniversario di Hiroshima. Quel giorno – era il 6 agosto del 1945 – la prima bomba atomica della storia esplose sopra la città giapponese. Stephen Walker nel suo libro Appuntamento a Hiroshima (Longanesi, 2005) scrive che, “nel primo miliardesimo di secondo, la temperatura al centro dell’esplosione raggiunse i sessanta milioni di gradi Celsius, diventando dieci volte più calda della superficie del sole”. In quell’istante, migliaia di persone furono ridotte in cenere o scomparvero, gli uccelli in volo furono incendiati e i pilastri di acciaio degli edifici di cemento si liquefecero. Subito dopo, arrivò l’onda d’urto, che viaggiava a circa 3mila metri al secondo con una pressione iniziale di sette tonnellate per metro quadrato, distruggendo tutto ciò che si trovava entro circa ottocento metri dal punto di detonazione (circa 60mila edifici), causando almeno altre 50mila vittime. Secondo alcune stime, nei primi secondi dopo l’esplosione morirono circa 80mila persone. Tuttavia, il vero orrore non si limitava a questi numeri: per la prima volta nella storia della guerra, un’arma aveva generato un’aura di morte invisibile, costituita da raggi gamma e neutroni veloci, che continuò a mietere vittime nei mesi e negli anni successivi. Alla fine, si stima che le persone collegate in qualche modo all’esplosione siano state circa 200mila.
Dopo Hiroshima, l’umanità si trova dunque in una condizione inedita: è diventata capace di auto-annientamento. Questa possibilità, l’ha trasformata improvvisamente in una “comunità di destino”: o ci perdiamo tutti insieme o ci salviamo tutti insieme. La fraternità terrestre, universale, è oggi divenuta realtà concreta, inscritta nella nuova condizione umana. Anche perché – ci piaccia o meno -  nel nostro sistema planetario, trasformato da un rapido [...] e simultaneo aumento di potenza tecnologica e di interdipendenza, tutto è necessariamente in relazione: tutti sulla stessa barca e nessuno che può salvarsi da solo.  Papa Francesco ha scritto che “l’interdipendenza ci obbliga a pensare a un solo mondo, ad un progetto comune”. Questa obbligazione alla fraternità è dettata dunque dalla necessità. Ma, nello stesso tempo, è anche un’obbligazione morale, perché scaturisce dall’impegno che ci si assume nel dire sì alla vita, nel garantire e consegnare un pianeta e una società planetaria vivibili alle future generazioni. Dobbiamo “decidere”, con coscienza, di diventare “fratelli tutti”, per salvaguardare la casa comune; e “decidere”, con coscienza, di diventare fratelli con la natura, per salvaguardare noi stessi salvaguardando la casa comune. Non c’è futuro senza questa scelta.
Per questo “fraternità è il nome della pace”.
Ne parleremo a lungo nei prossimi giorni alla seconda edizione dei Poeti sociali.
Un’occasione preziosa per ricordare a ciascuno il proprio compito e la propria responsabilità.
Daniele Rocchetti 
direttore artistico Poeti sociali 

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