di Ernesto Kieffer
La criminalità organizzata di oggi non ha bisogno di sparare. È silenziosa, mimetica, agisce senza fare rumore, ma con estrema efficacia. Si insinua nell’economia legale, si mescola ai circuiti della finanza, entra nei cantieri, nei ristoranti, nei supermercati. E soprattutto si radica nei territori, anche dove meno ce lo aspetteremmo. Verona, ad esempio, è una città che all’apparenza sembra immune, distante da certi fenomeni. Eppure, è uno snodo cruciale nei traffici internazionali di droga e nei flussi di denaro sporco.
Ne abbiamo parlato con Floriana Bulfon, giornalista d’inchiesta tra le voci più autorevoli in Italia sul tema delle mafie. Da anni indaga il potere opaco e sistemico delle organizzazioni criminali, raccontando le loro trasformazioni e la loro capacità di adattarsi ai contesti. Dalle ’ndrine calabresi ai cartelli latinoamericani, dai narcos alla penetrazione nei mercati urbani, Bulfon ha seguito le piste che collegano la periferia romana ai porti del Nord Europa, fino agli affari che toccano il nostro territorio.
– Bulfon, innanzitutto parliamo del traffico di droga, da sempre uno dei capisaldi delle organizzazioni criminali. Questo traffico passa anche da Verona?
«C’è un’idea diffusa e sbagliata che le rotte della cocaina passino solo per i porti più famosi del Sud Italia, come Gioia Tauro. In realtà i porti più utilizzati per lo scambio di questo tipo di merci sono i grandi porti del Nord Europa, come Rotterdam o Anversa. La realtà è sempre molto più articolata. Verona riveste un ruolo cruciale come hub per la distribuzione e la movimentazione della droga sul territorio. È importante sottolineare che la criminalità organizzata non si limita al narcotraffico, ma ha anche capitali e capacità di investimento per “comprare” interi pezzi di città».
– Chi comanda questi movimenti nel Veronese?
«La ’ndrangheta ha sicuramente un peso significativo e non domina attraverso la violenza manifesta o l’uso di armi. Il controllo si esercita con i soldi. Un potere silenzioso, sistemico. Parliamo di persone che arrivano e investono milioni. A volte l’investimento è il modo per riciclare denaro, altre volte è proprio un’espansione di potere».
– Come funziona il sistema del riciclaggio?
«Oggi il sistema del riciclaggio determina quasi un’economia parallela, che rende il denaro stesso una merce di scambio, con sistemi basati sulla fiducia e sulla compensazione. Ad esempio, un milione di euro in un luogo può essere prelevato in un altro senza che ci sia un trasferimento fisico. I codici seriali delle banconote possono essere usati come “prova” o “garanzia” di un versamento avvenuto, anche se la valuta fisica non viaggia. La criminalità cinese è molto esperta nel farlo. È un sistema parallelo, difficile da intercettare. Il confine tra economia legale e illegale è sempre più labile».
– E poi ci sono i paradisi fiscali…
«Sì, i paradisi fiscali e le giurisdizioni con legislazioni estremamente favorevoli giocano un ruolo cruciale. Paesi come gli Emirati Arabi Uniti, ad esempio, sono stati a lungo considerati rifugi sicuri, in parte a causa di normative che, fino a tempi recenti, rendevano estremamente complesse le procedure di estradizione. Lì si sono rifugiati personaggi chiave del narcotraffico, con coperture molto solide. Gente che investe milioni, mentre dall’altra parte del mondo si cerca di bloccare le loro operazioni attraverso cooperazioni giudiziarie. La difficoltà di raggiungere questi soggetti e i loro patrimoni rende la lotta al riciclaggio e al crimine finanziario una sfida globale complessa e in continua evoluzione».
– Ci sono, fra questi, figure insospettabili…
«Ce ne sono tante. In Macromafia racconto la storia di quattro di loro, tra cui Daniel Kinahan, un irlandese ricercato dagli Stati Uniti, o di Edin Gacanin, un bosniaco che coordina rotte dal Sudamerica all’Europa. C’è naturalmente l’italiano Raffaele Imperiale, narcos campano che si è mosso su più continenti vivendo per anni nel lusso di Dubai. Agiscono come imprenditori globali, parlano diverse lingue, frequentano un mondo molto lontano dall’immaginario del boss dei quartieri più disagiati. E spesso non hanno bisogno di sparare per farsi rispettare. Il loro potere risiede nella capacità finanziaria e nella rete di contatti che hanno saputo costruire».
– In tutto questo oggi gioca un ruolo importante la tecnologia...
«Sanno sfruttare al meglio le innovazioni. Usano telefoni criptati che offrono chat protette e persino il tasto “panic” che ti permette di cancellare i dati da remoto. E poi droni, identità digitali false, criptovalute, con le transazioni fatte passare attraverso numerosi mixer rendendo il tracciamento del denaro ancor più difficile. Si evolvono in continuazione».
– In Italia, e a Verona, si parla poco di mafia?
«Purtroppo spesso si pensa che, finché non ci sono i morti ammazzati, non esiste il problema. E che forse alla fine con la mafia un po’ ci si debba convivere. La mafia cerca di sparare il meno possibile, di agire in silenzio. La mafia oggi è azienda, è finanza, è “integrazione silenziosa”. Anche a Verona. Quando vediamo ristoranti, bar, locali aprire e chiudere troppo velocemente, chiediamoci: chi li finanzia? E perché? Dagli appalti pubblici ai grandi complessi residenziali, la mafia si insinua nelle forniture di materiali, nei subappalti, nel movimento terra. La logistica è un settore strategico per il controllo dei flussi di merci, inclusi quelli illeciti. Verona, snodo cruciale per le vie di comunicazione, è particolarmente esposta a questo rischio. Quando un’azienda criminale si radica, tutti noi paghiamo un prezzo enorme e vediamo calpestati i nostri diritti».