Alla ricerca del limite... che non c'è
Un infortunio, un grave incidente in moto e un ragazzo di vent'anni vede svanire tanti sogni. L'importante è saper reagire, rialzarsi e ripartire. Il padovano Andrea Toniolo lo ha fatto ed è andato di corsa fino a Capo Nord. Una sfida vinta. Altre lo attendono.
Quando le difficoltà possono diventare una grande opportunità. Il mondo è pieno di esempi di persone che hanno saputo sfruttare al meglio questo tipo di situazioni che spesso la vita pone davanti. È sicuramente questo anche il caso del giovane Andrea “Budu” Toniolo, un ragazzo padovano che un paio d’anni fa ha fatto a lungo parlare di sé. Reduce da un brutto infortunio calcistico prima, e da un grave incidente in moto poi, Toniolo ha dovuto passare un lungo periodo a letto, con le gambe spezzate. L’occasione ha fatto affiorare il desiderio, probabilmente a lungo covato ma mai veramente espresso, di compiere – una volta ristabilito – un percorso di vera rinascita, che lo portasse a compiere anche una grande impresa. E l’impresa è stata quella di raggiungere a piedi, di corsa, partendo dal paese natale, Galliera Veneta (Padova), Capo nord. 4.300 km senza alcun tipo di aiuto, se non quello di un carretto con cui trascinare la tenda, il sacco a pelo e i beni di primissima necessità. Partito a metà aprile 2015, il corridore ha raggiunto la meta in soli 86 giorni attraversando Austria, Germania, Svezia, Finlandia e Norvegia.
– Toniolo, com’è nata quest’avventura?
«Io sono il testimonial più giusto per dire che tutte le persone possono approcciarsi a qualsiasi tipo di sogno. Fino al 2012 avevo una vita normalissima: giocavo a calcio, avevo la fidanzata, studiavo all’Università e facevo un lavoretto con cui mi pagavo gli studi. Un quadretto che è andato letteralmente in frantumi quando sono stato investito in moto e ho riportato lesioni ad entrambe le gambe. Questo mi ha fatto staccare la spina dalla mia vita, le mie passioni, il calcio, il mio lavoro. Sei mesi bloccato a letto, con dolore fisico e soprattutto psicologico di un ragazzo di vent’anni che si vedeva spogliato delle sue certezze. Ma da lì sono rinato. D’altronde avevo due strade davanti a me: lasciarmi scivolare addosso tutto e ripartire con la solita vita oppure sfruttare l’occasione come trampolino di lancio per tentare di fare qualcosa che fosse finalmente mia».
– Qual è stato l’approccio iniziale per “disegnare la sua avventura”?
«La mia fortuna è stata quella di trovare fin da subito le persone giuste che non mi hanno fatto schiantare contro un muro, ma mi hanno accompagnato per gradi fino a quando non sono stato pronto. La prima volta che ho corso è stata tre mesi dopo la fine della mia convalescenza e mi sono presentato ad una 100 chilometri. Sono arrivato diciassettesimo, un ottimo risultato e da lì ho cominciato a partecipare ad una serie di ultramaratone. Dopo un po’, però, non ero più sazio. Volevo di più».
– A cosa ha pensato?
«Volevo inizialmente fare il giro d’Italia a piedi, ma purtroppo c’era un ragazzo appena partito per quella stessa avventura. Un po’ sconsolato ho srotolato la cartina dell’Europa sul mio letto, ho fatto un compasso con una matita e uno spago con la distanza che mi ero prefissato del giro d’Italia. Nel raggio di 3.500 km non c’era nessuna meta particolarmente suggestiva. Poco più in là, però, c’era un puntino, Capo Nord, che ha subito solleticato la mia fantasia. Ho deciso in un secondo. Da lì è partita la preparazione, non solo fisica. Ho progettato il carretto per poter correre e portarmi dietro tutto ciò di cui avevo bisogno».
– Come hanno reagito i suoi familiari e la sua fidanzata alla notizia che avrebbe intrapreso il viaggio?
«I miei genitori e la mia fidanzata mi hanno sempre sostenuto. Ho detto loro che appena mi fossi ripreso fisicamente avrebbero sentito parlare di me su tutti i giornali. Inizialmente hanno pensato che non fossi serio, ma poi mi hanno capito e sostenuto in tutto il progetto. Ma sono stati gli unici. In questo senso dico che bisogna perseverare nonostante molte persone, che dovrebbero essere quelle che ti dovrebbero sostenere nei tuoi progetti, ti dicano di lasciar perdere. Bisogna inseguire i propri sogni sempre, nonostante chi non lo fa di solito tenti di buttarti giù».
– In che modo è cambiato il suo rapporto con Anna, la sua fidanzata durante il viaggio?
«L’amore è stato il fulcro dei miei pensieri. Non avrei mai pensato che avrei sentito così vicina una persona pur allontanandomi ogni giorno sempre più da lei. Quando siamo a casa, immersi nel quotidiano, siamo guidati inconsapevolmente nelle nostre scelte, dalla vita frenetica, dagli orari, dagli impegni e via dicendo. Situazioni che non ci permettono mai davvero di concentrarci sui pensieri più profondi. Durante il viaggio a piedi non avevo in realtà nessun vincolo di questo tipo e avevo modo di meditare a lungo. E il primo pensiero del giorno e non solo era proprio dedicato alla mia Anna».
– A cui ha dedicato il suo carretto…
«Sì, il carretto l’ho chiamato AnnaJenny #1. Anna per la mia fidanzata, Jenny per la ragazza di Forrest Gump , il protagonista dell’omonimo film che mi aveva in parte ispirato. L’hastag 1 era un auspicio: volevo che fosse la prima di una serie di avventure».
– Qual è stato il momento più difficile dell’intero viaggio?
«Quando si è rotto il carretto la prima volta. Non ero pronto a questa evenienza, ma la fortuna è stata che si sia rotto a 8 km di distanza da dove abitano, in Sassonia, due miei compaesani. Questo mi ha permesso di rimanere da loro alcuni giorni, in attesa di trovare i pezzi di ricambio e riparare il carretto, per poi ripartire. Sono stati giorni di attesa, in cui ho dovuto trovare la forza per fermarmi, perché avevo già preso il ritmo e lo stop non m’avrebbe aiutato. Per fortuna sono riuscito a risolvere il problema e a ripartire. Poi, quando è ricapitato, in Svezia, ero pronto psicologicamente ad affrontare il problema. In realtà è stato un momento che mi ha rafforzato, anche grazie alla pazienza che ho dovuto avere in quei momenti».
– Quale invece il momento più bello?
«Sono stati tanti all’interno del viaggio, soprattutto quando mi sono trovato al confine della Germania e ho dovuto prendere il traghetto per arrivare in Svezia. Era metà maggio. In un mese e mezzo avevo attraversato l’Austria e soprattutto un paese grande come la Germania. Da quel momento in poi è finito il viaggio ed è iniziata la vera avventura».
– Dal punto di vista umano che tipo di esperienza è stata?
«Le persone che mi hanno ospitato mi hanno aperto le porte di casa e, a parte i miei due amici gallierani, tutti gli altri mi avevano appena conosciuto. Ogni volta che dormivo in un letto mi sembrava una spa, un paradiso».
– Qual è stato l’incontro più bello?
«In bassa Baviera ho incontrato un signore sulla settantina. Lui era sotto la tettoia di un benzinaio e quando mi ha visto ha cercato di attirare la mia attenzione sbracciandosi da lontano. Alla fine mi ha letteralmente preso di peso. Lui non parlava inglese e io non parlo il tedesco. Mi ha voluto offrire qualcosa e ne ho approfittato per scaldarmi un po’, cambiarmi i vestiti e caricare il cellulare. Alla fine per comunicare ci ha aiutato la cassiera che ha fatto da traduttrice. Lui ha tirato fuori dalla tasca un articolo di giornale ingiallito, di tanti anni fa, che parlava di un uomo che con un carretto aveva viaggiato a piedi dalla bassa Germania fino alla Danimarca. Era lui, da giovane. Quando ha capito che avevo compreso si è messo a piangere e mi ha abbracciato. Lui era convintissimo che io sarei riuscito ad arrivare a Capo Nord perché leggeva la mia determinazione negli occhi».
– E il rapporto con la natura?
«In Lapponia ho scritto le pagine più intense del mio diario. Il giorno del mio compleanno ho trovato il cartello Lappland, Lapponia. Per 12 o 13 giorni dopo aver visto quel cartello non ho incrociato nessuno, né trovato alcun centro abitato. È stata la porzione di avventura dove ho maturato i pensieri più profondi, dove ho trovato l’essenza della mia personalità. Gli animali non mi hanno mai fatto paura. Ho visto in quei giorni la prima renna: è stato molto emozionante… Poi nel tempo ne ho viste talmente tante che dopo un po’ non ci ho fatto quasi più caso. Ho intravisto anche un alce, che è un animale spaventosamente grande, e ho trovato tracce di lupi e orsi, ma non li ho per fortuna mai incontrati. Una mattina ho trovato le corna di una renna davanti alla mia tenda. Loro cambiano le corna ogni tanto e me le sono trovate come regalo, ricordo che mi porto sempre dietro».
– Che andatura ha tenuto durante le varie tappe?
«Quello che paga sono le sensazioni, in un viaggio così lungo. All’inizio mi ero dato un limite giornaliero, ma ho sbagliato. Pian piano ho cominciato ad andare avanti a sensazioni. Col tempo ho innalzato l’andatura fino a 50 km al giorno, ma in certi giorni ho superato i 70. In media ho corso circa 60 km al giorno. Anche grazie a questo sono arrivato, rispetto alle previsioni, con più di un mese di anticipo, l’11 luglio invece che il previsto 15 agosto».
– Che tipo di alimentazione ha dovuto adottare?
«Ho dovuto scegliere alimenti molto leggeri, facilmente assimilabili. Non ho mai usato integratori e durante il viaggio ho mangiato solo vegano. Difficile da credere, ma ho perso solo un chilo dopo 4.300 km di corsa. Spesso ho mangiato delle pizze, visto che nel nord Europa ci sono molte pizzerie, gestite per lo più da personale di origine araba. Una volta mi sono conquistato il rispetto del pizzaiolo mangiandone due enormi, una dopo l’altra. Ha voluto conoscere la mia storia e ha deciso di ospitarmi per la notte».
– L’arrivo a Capo Nord che emozioni le ha regalato?
«È stato bello e strano. Un misto di felicità e delusione per la fine del progetto. Ma è anche vero che se non ci fosse la fine non ci sarebbe nemmeno la soddisfazione per il raggiungimento dell’obiettivo».
– E il ritorno a casa?
«È stata l’unica cosa che cambierei. Non ho ascoltato il consiglio di Klaus, un ragazzo di Berlino che ho conosciuto negli ultimi giorni di avventura. Mi aveva consigliato di tornare con calma, magari in treno. Mi diceva che avrei avuto bisogno di riflettere, di star tranquillo. Invece sono tornato in aereo, per arrivare subito anche a causa della fine dei fondi. Sono arrivato in poche ore di volo all’aeroporto di Venezia, tutto sporco, con la barba lunga e un impatto difficile con i 38 gradi di temperatura. Mi sono sentito spaesato. Poi c’è stato l’abbraccio con i miei genitori e la mia fidanzata. Bellissimo, ma forse c’era bisogno di più tempo per assimilare le sensazioni vissute in tutti quei mesi spesi da solo».
– Il suo viaggio è diventato prima un documentario e poi un libro…
«Sui social diffondevo le immagini e i video realizzati grazie al mio cellulare e a una telecamera amatoriale. Un regista di Castelfranco Veneto, Alberto Scapin, mi ha contattato e con quelle immagini, anche grazie ad una raccolta fondi, ha realizzato un documentario che abbiamo portato in tour. Anche in seguito a questo successo una casa editrice mi ha contattato per chiedermi di scrivere un libro, un diario, che ho realizzato in cinque mesi e che ho intitolato Il limite che non c’è».
– Ecco, a proposito di limiti: cosa le ha lasciato questo viaggio?
«Mi ha fatto capire che non vale la pena vivere nei se e nei ma, ma occorre mollare gli ormeggi e vivere con la consapevolezza che bisogna prendere in mano la propria vita. Grazie ai disagi e alle privazioni che ho dovuto sopportare ho imparato quali sono le cose importanti della vita. Mi sento di augurare una vita piena di difficoltà e salite, perché ci permettono di apprezzare i momenti più sereni e felici. Prima o poi la fine di una salita arriva, ma se ci si arriva a testa alta, consapevoli che si arriverà più forti di prima, si potrà godere meglio il panorama».