I grandi interpreti raccontano la magia del teatro

Non capita spesso che un’opera incentrata su una realtà locale possa attrarre interesse anche al di fuori delle mura cittadine. L’eccezione la fa in questo caso Le voci del teatro, il libro del giornalista veronese Claudio Capitini, a lungo firma de L’Arena per quanto riguarda la critica teatrale. Un volume che raccoglie trent’anni di interviste – nel libro ce ne sono 67, con le biografie aggiornate e ricontestualizzate alla luce degli avvenimenti dei singoli personaggi – a quei protagonisti dei palcoscenici nazionali che hanno calcato le scene del teatro Romano e in particolare del Festival Shekespeariano, da oltre sessant’anni al centro dell’Estate teatrale veronese. La testimonianza di come, per una congiuntura particolarissima, negli anni il meglio del teatro italiano sia arrivato in riva all’Adige: dai Randone ad Albertazzi, da Strehler a Luzzati, da Gassman alla Valeri...
Anni in cui Verona è stata teatro – letteralmente – di sodalizi artistici (ma non solo: per esempio qui è iniziato l’amore tra Gian Maria Volontè e Carla Gravina, nel Romeo e Giulietta del 1960 a Castelvecchio), grembo di spettacoli che poi hanno fatto il giro dell’Italia intera, come l’Hamlet Suite di Carmelo Bene e Tramonto di Renato Simoni, con Alberto Lionello e De Bosio alla regia, e tappa obbligata per rappresentazioni internazionali, tra tutte l’Antonio e Cleopatra con Vanessa Redgrave. Tutto mentre la scena italiana era attraversata dal dibattito sulla funzione insostituibile del teatro a gestione pubblica e le iniziative – teatri stabili e sperimentali, cooperative e compagnie private – si moltiplicavano.
Con queste premesse, i ritratti-intervista a firma di Capitini per la pagina degli Spettacoli de L’Arena erano fatti con l’idea che restassero nel tempo: lo spettacolo è pretesto per raccontare come funzionava una determinata regia, quali canoni di recitazione esistevano, che ideologie si celassero dietro una messinscena. Vista con l’occhio distaccato del critico, tutta questa epopea del teatro, che dura parecchi lustri, non solo diventa un documento storico per quel che riguarda la vita del teatro di Verona e dei suoi protagonisti ma è instrumentum regni per comprendere come si faceva teatro allora; siccome c’è chi ha detto che ogni società si merita il teatro che riesce a coltivare, nel volume emerge lo specchio di quello che era il modo di pensare e di far cultura della società. Ma anche di come tutto ciò si sia evoluto. Tra le pagine iniziali trovano spazio alcune considerazioni sull’oggi: ad esempio la mancanza che si sente dei grandi registi, da cui i grandi interpreti amavano essere guidati; ma anche dell’avvicinamento dei giovani nel pubblico, aspetto importantissimo. E infine, delle difficoltà che oggi come allora permeano la macchina teatrale. La crisi, come afferma Capitini, influisce nella misura in cui l’amministrazione di una città non ha più fondi da impiegare.
L’Estate teatrale veronese non è mai stato un “festival balneare” considerato dagli attori come una mera possibilità economica; a Verona nascevano spettacoli e, laddove invece non nascevano, facevano il giro dei teatri anche d’inverno, per cui l’investimento iniziale doveva essere cospicuo e la produzione grossa. Oggi è impensabile: manca il contributo dello Stato, perché il Fondo unico per lo spettacolo è diminuito.
Il tempo sarà sempre più avaro nei confronti della macchina teatrale: muoiono le sedi del teatro però il teatro non morirà fintantoché avremo i grandi interpreti; Capitini cita Toni Servillo, un campione – come lo definisce – stimato nel cinema ma altrettanto applaudito in teatro nella sua recente interpretazione de Le voci di dentro in occasione dei trent’anni dalla morte di Eduardo De Filippo.