Il Fatto di Bruno Fasani
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Tragedie e banalità di una cultura fatta soltanto di voglie

È l’ultima domenica di giugno. Sfoglio frettolosamente la cronaca sulle pagine dei quotidiani. Mi tornano alla mente, come ogni giorno le parole della preghiera di san Francesco: “Che io muoia, per amore dell’amore tuo, come tu ti sei degnato di morire per amore dell’amore mio”...

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È l’ultima domenica di giugno. Sfoglio frettolosamente la cronaca sulle pagine dei quotidiani. Mi tornano alla mente, come ogni giorno le parole della preghiera di san Francesco: “Che io muoia, per amore dell’amore tuo, come tu ti sei degnato di morire per amore dell’amore mio”.
La cronaca, purtroppo, mi spinge lontano da questa logica. Essa mi racconta di un papà che ha soffocato i suoi due figli dodicenni, prima di gettarsi da un ponte di 96 metri. Lasciamo agli esperti della mente il compito di aiutarci a capire cosa accade dentro la mente dell’uomo quando si fa strada il virus della follia, mentre consegniamo il tutto alla pietà di Dio.
Ma nel frattempo un’altra cronaca, questa volta evangelica, ci dice che chi ama i genitori o i figli più di Gesù non è degno di Lui. Parole impegnative e apparentemente illogiche. In realtà parole profondamente capaci di insegnarci la strada dell’amore. Gesù domandandoci il primo posto ci chiede soltanto di sintonizzare la nostra capacità di amare sulla sua. Un amore fondativo, non esclusivo o escludente. Soprattutto un amore capace di servire ogni creatura, senza che nessuna di esse possa mai diventare oggetto nelle nostre mani.
Si tratta di un cammino difficile, non scontato, ma anche l’unico capace di disinnescare il detonatore di una cultura sempre più segnata dalla violenza e dalla gestione delle persone come se fossero dei mezzi e non dei fini.
C’è un primo passo per cominciare ad amare autenticamente. È la fatica di distinguere la verità delle nostre parole da quella delle intenzioni che stanno dietro a ciò che diciamo. Quanta ipocrisia in tanti nostri saluti, nei toni melliflui delle diplomazie relazionali, nei complimenti di circostanza, cui fa riscontro, in maniera speculare, tanta freddezza quando nelle intenzioni le persone ci risultano inutili. Penso alle piroette dei politici, ai loro facili cambi di casacca, che li fanno passare dai toni dell’inimicizia più aggressiva a quelli di una falsa complicità, per fini di potere. Penso anche a tanta nostra presunta fede, ricca di devozione o di qualche benevola offerta, quasi che la salvezza fosse opera nostra e della nostra bravura. Quale verità vera si nasconde dietro i nostri gesti quotidiani? Dietro la mimica del nostro parlare, sorridere? Dietro i toni della voce, delle frasi piene di convenevoli? È una croce far coincidere la verità che si vede con la verità del cuore e delle intenzioni, ma è una prima indispensabile strada per diventare veri e capaci di amare senza finzione.
Ma c’è una seconda attenzione che dovremmo coltivare per rendere sana la nostra mente ed è quella di coltivare in noi il senso del desiderio, della speranza, a dispetto dei fallimenti che la vita ci mette in conto. Il desiderio, come la speranza che ne è figlia, è il bisogno di vita, di infinito, perché esso si nutre sempre di qualcosa che ancora ci manca. Si desidera solo ciò che non abbiamo.
Mi chiedo quanto la violenza, di cui la cronaca ci riferisce quotidianamente, sia in effetti figlia di una cultura che ha eliminato il desiderio. La società dei consumi, come diceva Pasolini, è diventata il carcere del consumismo. Stiamo confondendo la felicità con la sazietà e il desiderio con le voglie. È questa cultura che finisce per fare anche delle persone che ci stanno accanto un bene di consumo, sul piano erotico o della convenienza. Fino a distruggerle quando non possiamo più esserne padroni. E se non sempre la fine di un rapporto si consuma dentro una tragedia, è pur sempre una tragedia pensare ad una cultura che lentamente ci insegna a non sapere amare.

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