Le verità squinternate di un generoso
Quando penso a don Antonio Mazzi, mi vengono in mente le parole che Ignazio Silone disse un giorno, nella piena maturità, quando si definì un “cristiano senza chiesa e un politico senza partito”. Lui i testi evangelici li aveva prima scrutati e poi visitati, affascinato dalla speranza che le promesse del Regno consegnavano all’umanità. Le tracce di questa visitazione le troviamo in uno dei suoi romanzi più belli, L’avventura di un povero cristiano...
Quando penso a don Antonio Mazzi, mi vengono in mente le parole che Ignazio Silone disse un giorno, nella piena maturità, quando si definì un “cristiano senza chiesa e un politico senza partito”. Lui i testi evangelici li aveva prima scrutati e poi visitati, affascinato dalla speranza che le promesse del Regno consegnavano all’umanità. Le tracce di questa visitazione le troviamo in uno dei suoi romanzi più belli, L’avventura di un povero cristiano. Aveva creduto anche nel sogno della politica, o meglio in quel socialismo che avrebbe potuto mettere al centro la persona e riscattarla dalle ingiustizie che la paralizzano. Sappiamo che non andò come lui aveva sognato, finendo per rimanere deluso sia dalla Chiesa che dal partito.
Ad ascoltare le dichiarazioni che don Mazzi ha rilasciato qualche giorno fa al Corriere della Sera viene spontanea una certa analogia. È vero che don Antonio non ha il garbo misurato del grande Silone nel dire le cose. Ruvido, al limite della sfacciataggine. Eppure emerge tra le righe il bisogno di giustizia, la passione per le creature e quella paternità spirituale che dovrebbe appartenere ad ogni prete. Ma è una passione che fiorisce nei toni di un uomo essenzialmente deluso dalla Chiesa e dalla politica. Si capisce che ama papa Francesco e pochi altri, ma per il resto lui il “Vaticano lo svuoterebbe, mandando tutti i cardinali in Africa”. E lo dice con la libertà spregiudicata che le 88 primavere gli consentono. Come quando afferma che «la religione gli dava e gli dà fastidio, perché è tutta regola e non fede». O come quando lascia intendere che lui ormai non si confessa perché «la confessione non c’entra con i peccati, ma è solo una chiacchierata liberatoria».
Oppure quando dice sì alle unioni civili «perché l’amore è amore» o quando rinuncia a giudicare chi sceglie le vie sbrigative del testamento biologico «perché la libertà viene prima della verità». Immagino che don Mazzi qualche volta si fermi a pensare all’eco delle sue cannonate. Ma non credo se ne faccia un cruccio. E tantomeno scrupolo. A impedirgli di vacillare c’è indubbiamente la coscienza di aver fatto del bene a tanti sbandati. A questo andrebbe aggiunta la percezione della forza che gli garantisce la notorietà e il riconoscimento sociale al suo operato. Senza dimenticare la burbanza che gli viene dal narcisismo che lo fa sentire sempre al centro, nel bene e nel male. Ne parlino bene, ne parlino male, purché ne parlino. Non conosco a fondo don Mazzi. Ci siamo annusati qualche volta, ma senza prenderci, pur essendo entrambi più votati al carisma che all’istituzione. Di lui non condivido l’intolleranza verso le fragilità della Chiesa, quasi che il Vangelo fosse un racconto ideale esente dai peccati dei suoi figli, così come l’idea che la verità sia qualcosa che comprime la libertà, anziché spianarle la strada. Ma a don Antonio va riconosciuto il merito di un protagonismo senza finzioni e una autentica passione educativa. Lui è fatto così. Prendere o lasciare.
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