Le verità borghesi di Umberto Eco
Può anche succedere che uno, a forza di bere champagne, trovi sgradevole anche un bicchiere di lambrusco. Sensazione un po’ anomala, ma pur sempre possibile. Può succedere perché anche in fatto di gusti si corre il rischio dell’abitudine. Anzi, nulla è più abitudinario dei nostri gusti...
Può anche succedere che uno, a forza di bere champagne, trovi sgradevole anche un bicchiere di lambrusco. Sensazione un po’ anomala, ma pur sempre possibile. Può succedere perché anche in fatto di gusti si corre il rischio dell’abitudine. Anzi, nulla è più abitudinario dei nostri gusti. Ma anche perché, a forza di bere a cinque stelle, uno finisce per sentirsi in categoria Mille Miglia, dove i comuni viaggiatori non accederanno mai. Non so se questa sia la sindrome di Umberto Eco. Sta di fatto che alla trentanovesima laurea honoris causa (cito a memoria in assenza della calcolatrice), è partito col cannone contro il lambrusco. Allegoria del web ovviamente. Cito le sue parole: «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli, che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Di solito venivano subito messi a tacere, ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. Ecco il dramma di internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità». Parole senza sconto come si può facilmente intuire, incapaci di mediare coi colori pastello. O bianco o nero, o dritto o rovescio. Una sorta di lettura manichea, dove l’illustre e strapagato personaggio ha già scelto da che parte stare. Che il mondo digitale sia un mondo culturalmente banale è un dato di fatto. Intasato di opinioni in libera uscita, più emotive che razionali, spesso finisce per diventare una discesa a spirale, capace di ingoiare le intelligenze e di papparsele senza tanti riguardi, come un tritatutto senza sconti. Ma Umberto Eco sbaglia almeno per tre ragioni a demonizzare il mondo di internet. Sbaglia perché ha un concetto borghese della cultura, come se questa appartenesse alle élite e come se solo a quest’ultime fosse dato di condurre i destini del mondo. Ma sbaglia soprattutto perché non è solo la cultura di internet che ha sdoganato certa imbecillità. Non si è mai chiesto quanto pseudo giornalismo stia infestando giornali e televisioni d’Italia con valanghe di notizie false, non verificate, più attente a violare l’intimità altrui che a informare il cittadino? Non ha mai spinto lo sguardo dentro a certi programmi televisivi, che sembrano una richiesta di rinuncia all’intelligenza? E non ha mai messo il naso sulle bancarelle dove fanno mostra i suoi libri, spesso così aristocraticamente impenetrabili, per scoprire quanti titoli sono un inno alla più ovvia e stupida banalità? Non s’è mai spinto ad entrare nel livello culturale di certa politica, dove perfino con un bicchiere molti troverebbero difficile fare la “O” di Giotto? Al famoso filologo viene da prendersela con internet. Ma è forse solo per un fatto di anagrafe e di cultura generazionale. Ottantatré anni, fanno di lui come molti di noi non più bambini, degli immigrati digitali, ossia incapaci di comunicare coi linguaggi della nuova medialità. Come la volpe con l’uva finiamo per dire che essa non è ancora matura, ma solo perché incapaci di coglierla. Non è internet a sdoganare l’imbecillità, ma il degrado complessivo della società, che porta gli imbecilli a esibirsi su tutti gli scenari possibili. Un degrado che passa nelle famiglie, che attraversa la scuola, che corrompe lo sport, che inquina la politica, che perde il senso del bene comune… Un degrado che si consuma ogni giorno come lo spettacolo dell’indecenza, a fronte di una cultura, quella che si vorrebbe maiuscola, ma che di fatto si limita ad applaudire alla trasgressione e alla libertà senza misura, come una sbornia senza pudore e senza ragione.