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Se il cemento dei lavori pubblici è la corruzione

C’è una domanda che sale, essenziale, dal cuore delle persone oneste (ce ne sono ancora tante in giro, a cominciare da chi non ha perso la capacità di indignarsi dinanzi a quanto di negativo accade): è ancora possibile realizzare un’opera pubblica nel nostro Paese senza dover corrompere qualcuno? Non sto pensando necessariamente alle grandi opere, con appalti e subappalti da centinaia di milioni, ma semplicemente a quei lavori medio-piccoli che tuttavia possono risultare essenziali per la vita di un paese.

Parole chiave: Direttore (6), Alberto Margoni (64), Editoriale (407)

C’è una domanda che sale, essenziale, dal cuore delle persone oneste (ce ne sono ancora tante in giro, a cominciare da chi non ha perso la capacità di indignarsi dinanzi a quanto di negativo accade): è ancora possibile realizzare un’opera pubblica nel nostro Paese senza dover corrompere qualcuno? Non sto pensando necessariamente alle grandi opere, con appalti e subappalti da centinaia di milioni, ma semplicemente a quei lavori medio-piccoli che tuttavia possono risultare essenziali per la vita di un paese. Si possono ancora realizzare senza dover chiedere favori – di solito, ben ricompensati – a Tizio piuttosto che a Caio? Evitando di far lievitare i costi in maniera esorbitante cosicché tanti possano pascolarci come dei lupi famelici? Sembra che ben poco sia cambiato dai tempi di Tangentopoli, sebbene da allora siano trascorsi più di vent’anni. O forse, come ricordava il sindaco di una metropoli, l’unica cosa diversa è che allora si suddividevano le tangenti tra tutti i partiti politici, oggi si parla di corruzione di singoli individui che sfruttano il loro potere per avere benefici personali o per i propri famigliari.
Ogni tanto, qualche procura italiana mette in luce una nuova tranche di quello che appare sempre più come un sistema, quindi una realtà acclarata, un modus operandi, una norma non scritta alla quale tu imprenditore o ti adegui oppure sei costretto a non lavorare per il settore pubblico. È accaduto così anche nei giorni scorsi con l’operazione della procura di Firenze che ha messo sotto inchiesta 51 persone, di cui quattro agli arresti, per un sistema, appunto, quantificato in 25 miliardi e riguardante una decina di grandi appalti per le principali opere in corso di realizzazione in Italia, dall’Expo di Milano all’alta velocità Milano-Verona, all’autostrada Salerno-Reggio Calabria, la regina delle incompiute. In cella è finito Ercole Incalza, un super-manager, un boiardo di Stato da poco in pensione ma – guarda te – con una consulenza esterna, uno di quei maxi-dirigenti dei ministeri che, governi la destra, il centro o la sinistra, sono sempre lì, nell’ombra, a fare il bello e il cattivo tempo. E se la ridono, osservando il teatrino della politica. Ne hanno valido motivo, se è vero che il 70enne ingegnere, sconosciuto ai più fino a lunedì scorso, in sella c’è rimasto 31 anni, vedendo sfilare ben cinque ministri sopra di sé (solo con Tonino Di Pietro gli era marcata male, visto che gli revocò l’incarico di consulente) e finendo prosciolto in quattordici inchieste, due delle quali per prescrizione. A proposito di ministri, nella bufera politica e mediatica (visto che non è coinvolto nell’inchiesta giudiziaria) è finito Lupi, a capo del dicastero delle Infrastrutture, il cui figlio sarebbe stato beneficiario di presunti favori.
In attesa che venga fatta piena luce su questo ennesimo caso di malversazione, resta la domanda se la corruzione nel nostro Paese sia un male ormai incancrenito e incurabile, caso mai da mettere in conto sin da subito, o si possa ancora pensare di fare qualcosa di serio e concreto per estirparlo.

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