Editoriale
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Il significato inclusivo del presepe

Rieccoci. Come ogni anno. Il Natale inquieta. Innesca polemiche, irritazione e proteste.
“Pretestuosa e ideologica” la scelta di cancellare la festa di Natale per “rispettare” e non offendere le diverse tradizioni religiose dei bimbi che frequentano l’istituto di Rozzano. “Grottesco e ridicolo” il tentativo di camuffare il Natale sostituendolo con rassegne ed eventi titolate al “Biancoinverno”...

Parole chiave: Presepe (15), Editoriale (407), Renzo Beghini (62)

Rieccoci. Come ogni anno. Il Natale inquieta. Innesca polemiche, irritazione e proteste.
“Pretestuosa e ideologica” la scelta di cancellare la festa di Natale per “rispettare” e non offendere le diverse tradizioni religiose dei bimbi che frequentano l’istituto di Rozzano. “Grottesco e ridicolo” il tentativo di camuffare il Natale sostituendolo con rassegne ed eventi titolate al “Biancoinverno”.
Se queste le reazioni, sono altrettanto interessanti le controreazioni come – per esempio – recita il fondo del Corriere di Verona di martedì: “Contro lo strapotere delle organizzazioni religiose (…) la laicità sostiene valori forti e positivi. I vari credo religiosi alla fin fine dividono, la ragione parifica e fonda l’eguaglianza”. Per questo a Natale è necessario “il ruolo (decisivo) dei laici”.
Ancora una volta il tema del rapporto tra religione e politica, tra appartenenza confessionale e convivenza civile, ritorna a infiammare gli animi.
Certo se tocchi i simboli rischi di farti del male. Il simbolo parla agli occhi. È il linguaggio tipico del mistero. Ciò che la ragione non spiega.
Ma la questione va oltre la decisione di fare o non fare il presepe a scuola.
Da una parte, infatti, c’è il tentativo di confinare le religioni ai margini della rilevanza sociale perché divisive e pericolose per la salute pubblica, con la contestuale pretesa di fondare sul mito della laicità (ma quale laicità?) la convivenza plurale; dall’altra c’è il tentativo di addomesticare la fede a tradizione civile e di strumentalizzare le religioni come depositi di valori identitari.
Antonio Polito nell’editoriale del Corriere della Sera di domenica scorsa scrive: “Pensavamo che la Storia stesse marciando in direzione della secolarizzazione. Invece la modernità ci si presenta densa di un senso religioso che non siamo più in grado di comprendere”.
I cristiani dei primi secoli portarono due novità inimmaginabili per quel tempo. Innanzitutto a differenza di ciò che avveniva per altre religioni, il cristianesimo non coincise con un gruppo etnico (oggi come allora non ha un’identità specifica di natura linguistica o culturale ma la eccede). Esso ruppe i confini fissi del paradigma: una religione, un popolo, una razza. In secondo luogo quei cristiani garantirono allo Stato la partecipazione alla vita pubblica, il rispetto delle leggi, il pagamento dei tributi e la preghiera per l’imperatore. Reclamarono però libertà di coscienza e di fede. Fu il primo vero esempio di laicità: la distinzione tra la coscienza morale e il diritto.
Martedì scorso in Gran Guardia si sono incontrati cristiani e musulmani per dire che è possibile costruire una città di pace e abbandonare le reciproche paure. Si sono riuniti per ribadire che è falso ritenere le religioni monoteiste per natura intolleranti, divisive e pericolose; per affermare che è falso il mito che la neutralità dello spazio pubblico (la laicità?) sia l’unica garanzia per la pace per tutti; per rifiutare ogni strumentalizzazione dei simboli religiosi per battaglie identitarie.
La cultura del nostro Paese ha trovato nel cristianesimo “riserve di senso” e un “deposito di significati” condivisi e condivisibili non solo per la convivenza civile ma anche per una cultura inclusiva. Non dimentichiamocelo. Questa ci sembra l’umanità silenziosa e dirompente del bimbo di quel presepe.

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