Le Beatitudini chiamano a stare dentro il mondo
In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli»
Se ci fosse una dimensione che accomuna gli uomini di tutti i tempi e di ogni luogo, forse la si potrebbe identificare nella ricerca della felicità, di una vita piena, significativa. Si tratta di una sete profonda, di un desiderio che abita l’interiorità di ogni persona e costituisce un argomento che Gesù affronta in alcuni discorsi: tutto ciò che riguarda l’uomo, infatti, è ascoltato, accolto e toccato dal Messia. Anche il desiderio di felicità vera.
La pagina evangelica delle Beatitudini è, senza dubbio, una di quelle più lette, commentate e meditate; di conseguenza il rischio latente è quello di conoscere tale brano così tanto da avere la sensazione che non vi sia più necessità di rileggerlo e comprenderlo nel profondo.
Siamo all’inizio del capitolo 5 del Vangelo secondo Matteo, abbiamo già incontrato le narrazioni dell’esordio del ministero pubblico di Gesù, della chiamata dei primi discepoli e sappiamo che al suo seguito c’è un folto numero di persone, tra le quali si annoverano malati, poveri, emarginati, uomini e donne sofferenti per i motivi più diversi. A differenza di quanto facevano alcuni rabbi del tempo, che predicavano e istruivano il loro uditorio in maniera distaccata, Gesù guarda chi ha dinnanzi, vede e porge l’orecchio a chi lo cerca e si mette al suo seguito. La salita sul monte non è una fuga, bensì la ricerca del luogo idoneo per annunciare la buona notizia della prossimità del regno dei cieli.
Questa prima grande proclamazione del Nazareno avviene in un luogo aperto, in una dimensione pubblica, cui tutti possono prendere parte. Pur evitando alcuni parallelismi che potrebbero risultare un po’ forzati tra la descrizione di Gesù sul monte e la vicenda di Mosè sul Sinai, è evidente l’intenzione matteana di mettere in risalto l’autorità che contraddistingue questa prima istruzione di Gesù, delineando l’insegnamento ai discepoli con alcuni elementi tipici dei discorsi sapienziali che trattano del progetto di Dio e della sua volontà.
Non c’è, purtroppo, una parola italiana che possa tradurre fedelmente il termine ebraico ‘ashrê: si tratta di una sorta di promessa, di un invito alla felicità, ma che muove dalla constatazione di una gioia che è già presente o in fase di realizzazione. Ciò che in italiano viene tradotto con l’aggettivo “beati”, quindi, in realtà è una sorta di condensazione delle promesse di Dio e del programma che sono invitati a vivere coloro che intendono seguire il Messia.
I beati non sono coloro che sperimentano una condizione di assoluta mancanza di sofferenza, di fatiche o che si trastullano in una realtà di benessere perenne; bensì sono coloro che riescono a ricercare un senso in ciò che la vita pone sul loro cammino. Ciò che viene promesso è il Regno dei cieli, che nell’intenzione dell’evangelista non rappresenta tanto un luogo, quanto piuttosto una possibilità di relazione con Dio: quando una persona si abbandona con obbedienza alla volontà del Signore e vive la comunione con Lui, sente che tutto ciò che la motiva e la muove sono Dio e la sua parola e così fa esperienza del Regno nella sua vita presente.
L’ultima beatitudine riguarda tutti quanti si mettono al seguito di Gesù e ha un marcato carattere messianico. I discepoli sono chiamati a stare nel mondo anche sperimentando soprusi, discriminazioni e persecuzioni; la logica in virtù della quale essi si potranno dire beati è la stessa della Pasqua, quella stessa che Gesù nella sua passione, morte e risurrezione ha vissuto per primo. La beatitudine evangelica ha il Messia come modello, ed Egli diviene anche la garanzia di realizzazione di tale programma di felicità perché da perseguitato da parte degli uomini è stato riabilitato e glorificato da Dio.
Auguriamoci tutti che le nostre comunità cristiane non si facciano sedurre dalla ricerca del consenso, dal desiderio di piacere a quante più persone possibili, ma mantengano, con spirito profetico, lo sguardo fisso su Gesù, anche quando questo significa divenire voci fuori dal coro o assumere posizioni scomode e controcorrente. Saranno comunità beate.
Didiscalia quadro: Cosimo Rosselli, Discorso della Montagna (1481-82), Cappella Sistina, Città del Vaticano
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