La potenza della fede
Luca 17,5-10
XXVII domenica del Tempo Ordinario
In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe. Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».
Il Vangelo di oggi è costituito da un insegnamento di Gesù sulla potenza della fede seguito da una parabola sull’atteggiamento che deve avere un servo nei riguardi del suo padrone. A prima vista sembrano due parti giustapposte senza un apparente legame tra di loro, ma se ci interroghiamo in quale contesto sia collocato questo discorso sulla fede, scopriamo che è preceduto immediatamente da un insegnamento sul perdono, in cui Gesù ordina di non deludere mai il pentimento del fratello dopo l’offesa arrecata, facendo sempre seguire il perdono. La perseveranza instancabile nel perdonare ha bisogno di essere sostenuta dalla fede, così come, del resto, l’umiltà nel servizio, che è l’insegnamento contenuto nella seconda parte del nostro brano evangelico.
Il tema della fede per la riuscita della vita del discepolo viene trattato da tutti i primi tre evangelisti (i cosiddetti sinottici), ma mentre in Matteo e Marco si parla di una fede capace di spostare le montagne, nel Vangelo di Luca è evidenziato ancora di più l’aspetto paradossale della forza della fede: si parla di un gelso a cui viene ordinato di gettarsi nel mare. L’evangelista propone come immagine un fenomeno che contrasta in maniera stridente con le leggi vigenti della natura. Il gelso infatti non è una pianta acquatica e il comando dato significherebbe praticamente la morte della pianta e tuttavia viene dato l’ordine di mettere radici nel “mare” non solo diventando una pianta acquatica, ma vivendo nell’acqua salata. La contraddizione con le leggi della natura diventa così colossale.
Questa immagine paradossale con la quale Gesù esprime l’efficacia della fede, sia pure modesta, rende particolarmente efficace il suo insegnamento: questo detto svolge insieme il compito di denuncia e di incoraggiamento. Di denuncia perché fa capire che la fede dei discepoli non raggiunge neppure la minima quantità del granellino di senape, è dunque incredibilmente modesta. L’incoraggiamento invece sta nel fatto che per compiere imprese così radicalmente sbalorditive, come quella che il gelso realizzerà obbedendo al credente, basta veramente una misura di fede ridottissima.
Luca, inoltre presenta gli apostoli come consapevoli della loro fede limitata; il detto di Gesù è infatti la risposta alla loro richiesta: «Accresci la nostra fede», essi sono dunque coscienti della sproporzione tra la loro fede e la vicinanza a Gesù e al suo insegnamento. La loro richiesta si potrebbe più esattamente tradurre con “poni” o “colloca” in noi la fede, il che fa pensare che nei richiedenti la fede non vi sia e che solo Gesù possa donarla loro. In altri contesti però il verbo usato indica anche la crescita di una realtà per cui anche la traduzione che propone una richiesta di aumento della fede è corretta, pur non dimenticando che essa è pur sempre dono.
Nella parabola che fa seguito all’insegnamento sulla fede, Gesù descrive la normalità dei rapporti tra il datore di lavoro e i suoi dipendenti (schiavi?) come erano praticati al suo tempo. Per la nostra sensibilità moderna potremmo ritenere il comportamento del padrone assolutamente ingiusto. Infatti anche se il servo torna dalla campagna affamato e stanco, dopo aver assolto i compiti che gli erano stati affidati, potrà mangiare solo quando avrà preparato il pranzo al padrone e glielo avrà servito. Ancora più duro può sembrare il discorso di Gesù quando ne fa l’applicazione ai suoi discepoli dicendo: «Così anche voi». L’accento non va posto tanto sulla intransigenza del datore di lavoro, ma piuttosto sulla sua coerenza: egli si comporta secondo il suo ruolo sociale di proprietario, in diritto di esigere. Così al discepolo di Gesù non è richiesta tanto l’intransigenza ma la coerenza: chi segue Gesù deve aderire fino in fondo al carattere di servizio che comporta essere suoi seguaci. Tale adesione porta il discepolo al riconoscimento della sua “inutilità”.
Su questo termine (servi inutili) tuttavia c’è da intendersi bene. Non è stato certamente inutile il servo che ha svolto i lavori affidatigli dal padrone, altrimenti questi non avrebbe avuto bisogno di nessun servitore, se avesse considerato la servitù superflua. Pertanto il servo, discepolo di Gesù, deve aver ben chiaro il senso di sproporzione tra la sua persona e colui che è chiamato a servire, tra le sue limitate capacità e il servizio che gli è affidato. Il termine “inutili” può essere considerato manifestazione di quel linguaggio paradossale che spesso Gesù usa per dare forza al suo insegnamento, come ha fatto nel nostro brano a proposito del gelso trapiantato nel mare.
Noi siamo abituati a rapporti di lavoro ben diversi da quelli del tempo di Gesù e ringraziamo il Signore del progresso che ha portato a rivalutare adeguatamente la dignità della persona umana, però è certo che nei riguardi di Dio possiamo affermare con tutta tranquillità che Egli non ha “bisogno” di noi (in questo senso siamo “inutili”), ma che noi abbiamo bisogno di Lui e pur non avendo bisogno di noi, ci ha creati, ci ama, ci ha salvati e destinati a godere in eterno una gioia incommensurabile derivante dalla familiarità con Lui, ben diversa dal rapporto padrone-schiavo e che nella Bibbia è bene illustrata quando è rappresentata come un rapporto padre-figli, sposo-sposa, innamorato-innamorata.
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