Commento al Vangelo domenicale
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La gloria non sottende potere e successo ma dono di sé e obbedienza

Marco 10,35-45

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

Parole chiave: Vangelo della Domenica (291)
La gloria non sottende  potere e successo ma dono di sé e obbedienza

Per comprendere meglio il significato del brano evangelico di questa domenica, sarebbe opportuno includere nella lettura anche i tre versetti precedenti al v. 35 con cui inizia il testo proposto dal lezionario liturgico. Così facendo si comprenderebbe il contesto in cui vengono pronunciate le parole di Giacomo e Giovanni e la conseguente risposta di Gesù. L’episodio del vangelo si svolge mentre prosegue la salita verso Gerusalemme da parte del Nazareno e dei suoi in un clima di stupore e paura. Il Maestro, dopo aver preso in disparte i Dodici, annuncia per la terza volta l’imminente destino di sofferenza, morte e resurrezione che lo attende. Le sue parole, però, questa volta, assumono un tono più drammatico e di forte impatto: Egli afferma che sarà consegnato ai pagani, condannato a morte, deriso, flagellato, fatto oggetto di sputi.
A seguito di ciò, i fratelli Giacomo e Giovanni formulano una richiesta al Maestro. Non si tratta di due discepoli qualunque, ma di due di quelli che sono con il Nazareno fin dall’inizio, che appartengono alla cerchia più vicina a Gesù, che erano presenti nel momento in cui è stata riportata in vita la figlia di Giairo, ma soprattutto durante l’evento della Trasfigurazione. I due figli di Zebedeo palesano la loro incomprensione che sembra sfociare in impermeabilità rispetto ad alcune affermazioni del Maestro: non appaiono capaci di accogliere e accettare quanto viene detto loro. Ignorando e rimuovendo tutto quanto si riferisce al destino di patimento e sofferenza che attende Gesù, essi sono protesi al dopo, alla gloria del Regno.
Prima ancora di formulare la loro domanda i due fratelli si rivolgono al Nazareno dicendo: «Vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo» (Mc 10,35). L’affermazione è perentoria e non ha come obiettivo la ricerca di un chiarimento o di una rivelazione rispetto alla volontà di Dio, bensì l’imposizione della loro volontà. Giacomo e Giovanni, rivolgendosi così al Maestro, distorcono in maniera emblematica la loro preghiera: allontanandosi dalla logica del Padre Nostro in cui ci si abbandona alla volontà del Signore, fanno emergere il desiderio di far fare a Dio ciò che vogliono. Pretendono dalla divinità che soddisfi i loro bisogni nei tempi e nei modi che sono propri dell’uomo, trasformando colui che chiamano Signore in tutt’altro.
La domanda di poter sedere l’uno alla destra e l’altro alla sinistra del Messia, inoltre, attesta l’ottica meramente terrena con cui i due figli di Zebedeo leggono gli eventi futuri. Giacomo e Giovanni appaiono imbrigliati in logiche che non appartengono al Nazareno e che suppongono una sistemazione gerarchica piramidale dei seguaci di Gesù. Un tale orizzonte di pensiero, però, rischia di produrre un allontanamento non solo dal Maestro ma anche dal resto del gruppo dei discepoli che restano basiti e indignati.
Nonostante Gesù risponda ai due che essi non sanno che cosa stanno chiedendo e provi a correggere la loro comprensione facendo riferimento al calice che Lui dovrà bere e all’immersione che lo attende, la difficoltà dei discepoli sembra permanere. Mentre gli uni pensano alla gloria come a qualcosa che sottende potere e successo, il Nazareno la intende come capacità di dono di sé, obbedienza alla volontà di Dio.
Di fronte a tale incomprensione diviene necessario un nuovo intervento da parte del Maestro per ribadire quanto già detto lungo la strada, ossia che chi vuole essere primo deve farsi ultimo e servo di tutti (Mc 9,35). La comunità di coloro che si pongono al seguito di Gesù deve connotarsi per un diverso modo di vivere le relazioni: se la logica mondana è costituita da sopraffazione, dominio e oppressione di quanti sono più deboli, tra i seguaci di Cristo la regola è quella del mettersi a servizio l’uno dell’altro, del donare gratuitamente ciò che si è ricevuto da Dio. E il modello a cui ciascuno deve fare riferimento è Gesù, il Figlio dell’uomo venuto per servire e offrire la sua vita e non per essere servito. «Tra voi però non è così» (Mc 10,43) dice il Nazareno: non è una esortazione, un invito oppure un augurio. Si tratta di una affermazione fondativa, una sorta di norma costituzionale che determina l’essenza della Chiesa. Essa è chiamata – anche oggi – ad essere una comunità di persone disposte a servirsi reciprocamente, senza velleità di avanzamenti di carriera, desideri di privilegi o riconoscimenti di alcun tipo; un luogo in cui sperimentare relazioni gratuite e disponibilità all’accoglienza e al perdono.

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La gloria non sottende potere e successo ma dono di sé e obbedienza
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