Commento al Vangelo domenicale
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L’intrinseca forza dirompente di una minuscola semente

Marco 4,26-34

In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».
Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».
Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.

Parole chiave: Vangelo della Domenica (295), Lorenza Ferrari (7)
L’intrinseca forza dirompente  di una minuscola semente

Nel Vangelo secondo Marco, al capitolo quarto, è riportato un lungo discorso in parabole pronunciato da Gesù. Collocate successivamente alla parabola del seminatore che sparge il seme su diversi tipi di terreno, le narrazioni che ascoltiamo nella liturgia domenicale sono le uniche parabole dell’opera marciana che pongono a tema il regno di Dio. Pertanto, dopo avere posto l’attenzione sul seme gettato, che rappresenta la parola, ora il Nazareno si focalizza sull’efficacia che tale parola possiede.
Il primo racconto compare solo in Marco ed evidenzia tre soggetti principali: l’uomo, il seme, la terra, la cui sinergia porta alla mietitura. La figura del contadino che semina è tratteggiata in maniera interessante poiché l’autore non si limita a riportare ciò che tale personaggio fa, ossia seminare e mietere, ma pone in evidenza anche il suo non fare. Dopo aver gettato la semente, mentre è in attesa di procedere alla mietitura, il contadino per certi aspetti è inattivo; ciò che accade lontano dai suoi occhi lui non lo può stabilire, governare e men che meno accelerare. Una volta che il seme è stato collocato a terra, la figura del seminatore si connota per capacità di pazienza, fiducia e attesa. Egli si costringe a non intervenire, a osservare attentamente quanto accade, sperando che il miracolo della vita si compia ancora una volta. L’uomo può dormire o restare desto, perché ciò che avviene sottoterra non dipende da lui. Sicuramente egli spera di arrivare a vedere un raccolto abbondante, ma sa che attendere non significa disinteressarsi, essere liberi da impegni gravosi. Mettersi in attesa vuol dire osservare attentamente, vigilare affinché nulla disturbi la germinazione e la crescita del seme. La sua è una grande azione interiore, tipica di colui che sa aspettare i tempi di maturazione.
Anche oggi chiunque opera in ambiti educativi, soprattutto nelle relazioni con adolescenti, sa che il tempo dell’inazione, quello in cui si lascia fare senza far mancare la cura, in cui si asseconda un processo che deve avvenire spontaneamente, in cui si aiuta senza intervenire direttamente, è essenziale per favorire la crescita. Rinunciare all’essere protagonisti, al decidere cosa, quando e come fare, al desiderio di controllo presuppone un grande lavoro interiore che resta invisibile. Paradossalmente è più facile agire e imporre attività piuttosto che mettersi a fianco di una persona ascoltando il procedere lento di piccoli cambiamenti e attendendo i suoi tempi di maturazione. La pazienza dell’attesa che conduce al discernimento è fondamentale per una crescita che sia realmente efficace.
Gesù utilizza l’immagine del seme non solo perché si tratta di una realtà consueta e comprensibile per quanti lo ascoltano. Il seme, infatti, è il frutto di un raccolto precedente, è qualcosa che appare secco e privo di vita ma che se viene collocato nella terra, con le giuste condizioni, si modifica fino a dar vita a nuove piante e nuovi frutti. Il seme con la terra e il tempo opportuni può trasformare se stesso in maniera silenziosa, graduale, totale. Al periodo di inattività dell’uomo corrisponde quello della manifestazione del mutamento del seme: dal germoglio che si allunga, alla formazione dello stelo per giungere alla spiga carica di chicchi. Solo alla fine di tutti questi passaggi arriva il tempo della mietitura. Favorire e accompagnare la crescita di un seme, di una persona, di un gruppo o di una comunità richiede fiducia, pazienza, capacità di discernimento tra i tempi di azione e quelli di inattività.
La terra non è solo lo spazio fisico che permette la trasformazione del seme ma anche il luogo accogliente che permette al seme piantato di sprigionare la sua energia; è l’ambiente sicuro e riparato nel quale avvengono i cambiamenti più profondi che restano spesso nascosti ai più.
Anche nella seconda parabola Gesù ricorre all’immagine del seme, questa volta per evidenziare il contrasto che intercorre tra la situazione iniziale e quella finale. Da un seme piccolissimo (non il più piccolo), quello di senape, deriva una pianta grande che può ospitare tra i suoi rami anche gli uccelli del cielo. L’albero che offre riparo e ristoro è un esempio che sovente ritorna nella tradizione anticotestamentaria per simboleggiare un re/regno che offre protezione a chi ne fa parte (Gdc 9,8-15; Dn 4,10-12.17-23). Così come questa semente di senape può sembrare minuscola, una piccola cosa, ma con una potenza interna enorme e impensabile, anche la parola di Dio portata dagli uomini può apparire fragile e debole, ma non si deve dimenticare la sua intrinseca forza dirompente che la porta a poter diventare una pianta molto grande e accogliente.
Il vangelo di questa domenica ci fa riflettere sul paradosso di una fede che continua a credere ciò che sembra incredibile e a sperare ciò che appare insperabile.

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