Il Signore ci chiede di essere profeti
Marco 6,7-13
In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.
Il Vangelo di questa quindicesima domenica del tempo ordinario ci permette di riflettere sul tema della missione e del compito profetico: quando Dio entra nella vita del profeta, dal quel momento la cambia totalmente. Esso va letto anche in relazione alla Prima Lettura odierna (Am 7,12-15), in cui si riflette sulla denuncia appassionata del profeta Amos alle strutture religiose, politiche e sociali del suo tempo, alla società corrotta che calpesta il diritto dei poveri per l’interesse di chi detiene il potere. È una denuncia che rifiuta la falsa sicurezza del tornaconto personale, avvallato dalle strutture di potere. Non è forse anche per noi una riflessione del tutto attuale? Il messaggio della Prima Lettura non ci può lasciare indifferenti, perché ritroviamo oggi, nel nostro agire e pensare sociale, molte similitudini, legate ad una cultura del “possesso”, del bene privato e personale, della propria “pancia”, dove la responsabilità che ognuno di noi ha, non è espressione di servizio gratuito e disinteressato, ma piuttosto manifestazione di potere personale ed interesse privato. In questo contesto sociale, oggi, il Signore ci chiede di essere profeti e di profetizzare con uno stile di sobrietà, dove l’arma che convince non è quella della forza economica, del potere temporale, della sapienza culturale, ma piuttosto la forza dell’amore, della speranza, della vicinanza affettiva, il messaggio di verità che rende liberi e dona la pace del cuore: “E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche”. Amos era un mandriano, e incideva i sicomori per procurare foraggio agli animali. Egli viene “afferrato” da Dio e da quel momento la sua vita non può che cambiare, perché non si è profeti per professione, ma per vocazione. Il cristiano è un chiamato, un convocato da Dio. Anche Paolo nella Lettera agli Efesini, ce lo ricorda: “Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità” (Ef 1,3-4). Il rischio è quello di rimanere a raccogliere sicomori, nonostante la chiamata che il Signore ci fa ogni giorno, rimanendo a coltivare i nostri personali interessi. Questo perché, forse, ci manca il coraggio di andare e proclamare la verità di Cristo, testimoniando con fede che l’amore, supera ogni ostacolo. Quanta paura ad impegnarsi politicamente, perché il rischio è quello di non farcela: quanto timore ad incontrare lo straniero, il diverso da noi, perché la differenza ci inquieta, ci rende insicuri. Il priore della comunità di Bose, così scrive: “Impara a riconoscere che comunione non è uniformità: essa è plurale. E a riconoscere che le differenze sono positive finché non si trasformano in divisioni” (Enzo Bianchi, “Cerca gli altri”). Quanta reticenza nel denunciare ingiustizie e soprusi. Tale istinto a tracciare confini nasce dalla paura: preferiamo rimanere tranquilli e certi, evitando l’ignoto e ciò che potrebbe sconvolgere le nostre sicurezze materiali, le piccole certezze sociali acquisite a fatica. In questo modo i confini diventano barriere che dividono e determinano separazioni, che talvolta sfociano in violenza (morale, sociale e psicologica). Il rischio è quello di sentire l’altro, il diverso, come un avversario, un nemico, e quindi la scelta di stare con i propri simili, ossia con sé stessi. Ma per il Signore ogni creatura è da amare, non ci sono diversità, figli più importanti, e chiede a ciascuno di noi di essere liberi nello spirito e universali nel cuore. Lo stile con cui Gesù chiede ai suoi discepoli di andare è quello che consente di entrare nella dimora dell’uomo, nel suo cuore. Presentarsi indifesi, poveri, senza armi particolari, ma con l’unica arma dell’amore e della comunione è ciò che consente di testimoniare la sola ricchezza che ispira il loro agire; la misericordia di Dio e della Sua Parola. Il viaggiare in coppia, segno di comunione e di vicendevole amore, senza alcun bene con sé, se non l’amore del Padre, libera il cuore degli uomini dai pesi che li opprimono e li chiama a fidarsi. Il bastone e i sandali dicono che ognuno di noi è chiamato ad un viaggio lungo, un viaggio in cui non siamo chiamati ad insegnare, ma a stare accanto, accogliendo e lasciandoci accogliere. Non è facile, e di questo faccio esperienza quotidiana nel servizio alla “Casa Accoglienza il Samaritano” e nel confronto con tanti volontari. È semplice infatti servire la cena quotidiana all’ospite, ma è veramente difficile sedersi con lui sulla panchina e condividere un piccolo spazio di amore e fraternità: “Non basta la casa, un tetto, occorre un lembo della tua vita, del tuo mantello, perché il tetto, da solo, non copre, come la minestra non scalda se non c’è un po’ di alito umano” (Don Tonino Bello, Con viscere di misericordia).