C’è chi dice no ma cambiare si può
Matteo 21,28-35
In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero:
«Il primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».
Anche in questa domenica incontriamo nel vangelo di Matteo una parabola che Gesù propone ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo; l’azione è collocata a Gerusalemme nel contesto della crescente opposizione delle autorità religiose e politiche nei riguardi di Gesù: spesso i discorsi sono connotati da un tono polemico.
La parabola, molto succinta e schematica, presenta un padre con due figli (immagine che ritorna anche in altre parabole come quella del figlio prodigo di Luca) ai quali ordina di andare a lavorare nella vigna: uno risponde no ma poi si pente e va a lavorare, mentre l’altro risponde sì ma poi non va nella vigna.
Il senso della parabola è chiarito dalla domanda iniziale: «Che ve ne pare?» che chiama in causa gli uditori e da quella finale: «Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?» che costringe i medesimi a prendere posizione su quanto Gesù ha esposto. Le domande sembrano presupporre una risposta obbligata, tanto è chiaro l’esempio portato, ma non è una risposta ugualmente scontata nel suo significato più profondo.
Infatti la risposta delle autorità politiche e religiose coincide esattamente con l’insegnamento di Gesù: «Non chi dice “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio» (Mt 7,21 a conclusione del discorso della montagna); giudicando dall’esterno una vicenda che apparentemente non li riguarda, dimostrano di capire che è necessario fare la volontà di Dio e non accontentarsi delle parole.
Quello che non hanno capito è di essere essi stessi parte della storia, perché il giudizio corretto da loro formulato si ritorce contro la loro ostilità a Gesù; per questo la conseguenza che ne trae lo stesso Gesù applicandola ai sommi sacerdoti e agli anziani del popolo ha un tono molto duro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio».
La frase suona provocatoria e un po’ dà fastidio anche a noi, figuriamoci come deve aver urtato i destinatari che stavano di fronte al Signore: ciò significa che Gesù, raccontando questa parabola ha colto nel segno. Egli intende dire che i grandi peccatori (pubblicani e prostitute guardati dai religiosi rigidi del tempo come ormai fuori da ogni possibilità di salvezza) entrano nel regno prima delle autorità religiose, non perché sono peccatori, ma perché sono cambiati (si sono convertiti) e possono così accogliere con disponibilità il regno e come prova di questo Gesù porta l’esempio del comportamento tenuto nei riguardi di Giovanni Battista: pubblicani e prostitute gli hanno creduto e si sono convertiti e aperti al successivo annuncio del regno; le autorità politiche e religiose non hanno riconosciuto la sua autorità di profeta e si sono precluse l’accesso all’annuncio portato da Gesù.
Quanto dice il profeta Ezechiele nella prima lettura: “Se il malvagio si converte dalla malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso” (Ez 18,27), sarebbe bastato per illuminare la comprensione del comportamento di Gesù verso i peccatori, che corrisponde esattamente a quanto detto dal profeta. I pubblicani e le prostitute hanno ascoltato la predicazione penitenziale di Giovanni Battista e hanno cambiato vita, mettendosi così nella condizione di ricevere la vita; invece i capi, che sembrano giusti, non si sono pentiti e non hanno cambiato vita, divenendo causa della loro stessa rovina.
E noi da quale parte ci collochiamo? Ci riteniamo i giusti che non hanno bisogno di nessun pentimento per cambiare e quindi ci riteniamo in diritto di giudicare i “peccatori” tra i quali noi non ci siamo mai? È evidente che non si tratta di fare superficiali ammissioni di colpevolezza senza incidere profondamente nella nostra anima. Il confronto non è con una generica azione di buonismo, con un impegno nel bene che non costa niente, con l’adeguamento al comportamento comune e normale dell’ambiente in cui viviamo.
Il cristiano non è chiamato ad una generica bontà che non convince nessuno: è chiamato a confrontarsi con la persona ed il comportamento del Signore Gesù non solo nella dimensione individuale ma soprattutto nel suo modo di relazionarsi con le persone. Se Dio è amore (vedi prima lettera di Giovanni) allora l’amore è la dimensione fondamentale della vita cristiana e l’amore richiama necessariamente il rapporto con gli altri. “Il figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e per dare la vita come prezzo di riscatto per molti” (Mt 20,28).
Don Adelino Campedelli