Attaccati alla vite per portare frutto
Giovanni 15,1-8
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».
La pagina evangelica di questa domenica è tratta dai discorsi di addio nella versione secondo Giovanni (Gv 13,31–16,33). Siamo all’inizio del capitolo quindicesimo e ascoltiamo Gesù che si rivolge ai suoi prima dell’epilogo della sua vita. Il discorso è centrato sulla figura del Maestro che parla richiamando prima la sua relazione con il Padre e poi il legame con i discepoli.
La similitudine della vite e dei tralci ha fin dall’inizio una chiara connotazione cristologica, ossia tende a rivelare e favorire una comprensione corretta della persona di Gesù. Egli si presenta come la vite vera che ha una relazione vitale, essenziale con il vignaiolo che è Dio. La pianta della vite per un ebreo è familiare e significativa: molteplici sono i brani dell’Antico Testamento che utilizzano l’immagine della vigna/vite per identificare il popolo di Israele e la sua alleanza con il Signore (solo per citare alcuni esempi Os 10,1; Is 5, 1-7; Ez 2,21). Il fatto, però, che sovente la vigna che rappresenta gli israeliti sia descritta come poco produttiva, oppure devastata e recisa o addirittura bruciata, ha portato alcuni a leggere nelle parole di Gesù «io sono la vite vera» (Gv 15,1) una sorta di intento di contrapposizione rispetto alla comunità giudaica. Un’analisi accurata dell’affermazione del Nazareno, tuttavia, fa intendere quanto detto in maniera diversa: Gesù dice di essere la vite vera perché è colui che porta a compimento tutte le promesse e le attese della prima alleanza. Non c’è alcuna volontà di sottolineare frizioni o di marcare le distanze con quanto lo ha preceduto, al contrario l’intento è quello di proseguire nel solco tracciato e portare a pienezza quanto già profetizzato.
Il vignaiolo si occupa della sua pianta, la cura e provvede ad essa affinché abbia tutto ciò che le serve per produrre frutto. Volendo fare bene il suo mestiere, egli si occupa anche di recidere i tralci improduttivi e di potare quelli fruttiferi così che possano essere ancora più generosi. La vera potatura avviene solitamente d’inverno quando la pianta è spoglia, sembra morta e allora le vengono lasciati solo i rami migliori; a primavera, invece, si procede con l’eliminazione dei pampini sempre con l’intento di favorire lo sviluppo dei grappoli d’uva. Il lavoro di cura è costante e questo attesta la passione e la pazienza che caratterizzano chi si occupa della vigna. È solo lui, il vignaiolo, che può eliminare un ramo, nessun altro può assumersi questo compito. La sua azione è purificatrice perché intende aumentare la fecondità della vite e dei rami che restano ad essa attaccati. Sullo sfondo di un simile contesto non è difficile cogliere il riferimento al giudizio di Dio che incombe su tutti i tralci che si rivelano improduttivi.
Chi rimane attaccato alla vite è destinato a portare frutto. I discepoli possono essere fecondi non solo poiché restano uniti alla vite che è Gesù, ma anche perché custodiscono la sua parola. Essi restano in Cristo – facendo spazio dentro di loro alle sue parole – così come Lui rimane in loro e con loro. Gesù/vite e i discepoli/tralci vivono la stessa vita che è garantita dalla medesima linfa: al tralcio che viene reciso non resta che seccare ed essere gettato nel fuoco. Restare uniti alla vite garantisce non solo vita, ma anche la possibilità di una fecondità inaspettata. Nessuno tra i discepoli conosce nulla della sua autentica capacità di essere fecondo così come il tralcio non sa se riuscirà a portare frutto, non sa come sarà questo frutto, e non ha contezza nemmeno di quanto frutto potrà arrivare a portare. Tutte queste conoscenze sono esclusiva del vignaiolo, il quale agisce e opera per giungere al risultato migliore, potando ed eliminando ciò che non è necessario. Le parole della fine del versetto 5 e dell’intero versetto 6 («perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano») suonano piuttosto dure e perentorie. È possibile intravedere tra le righe un riferimento al capitolo quindicesimo del libro di Ezechiele in cui si parla della sostanziale inutilità del legno della vite. Esso viene descritto come un materiale non adatto alla fabbricazione di alcun oggetto che si desideri duraturo o di qualità, anzi, di esso si dice addirittura che potrebbe essere più utile dopo essere stato bruciato. Non serve a nulla. Come intendere, quindi, il fatto che Gesù abbia paragonato i suoi discepoli ai tralci costituiti da tale legno? Il significato risiede proprio in questo: nella constatazione che il legno della vite ha senso solo fino a che rimane unito, vivo e fecondo in essa, poiché l’unica attività che può fare e gli viene richiesta è quella di portare la linfa vitale, affinché la vite possa offrire frutti generosi e abbondanti.
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