Gino Bonamini: il nostro Michelangelo del ferro battuto
di MARTA BICEGO
A Cogollo di Tregnago per 70 anni ha cesellato il metallo da maestro. Ora la sua arte è racchiusa in un libro
di MARTA BICEGO
Sembra leggerissimo. Eppure è ferro. E non c’è nulla che non si possa realizzare con questo metallo all’apparenza indomabile, in realtà duttile e malleabile. Soprattutto se a trattarlo sono mani esperte come quelle di Gino Bonamini che sanno lavorare anche rame e ottone, argento e oro. Perché a vincere sulla materia è un insieme di peculiarità – abilità e intuito uniti a impegno quotidiano e tecnica, a precisione e pazienza – che rendono l’uomo artigiano prima, scultore talvolta. Parabola descritta nel catalogo Gino Bonamini. Una vita con l’arte del ferro a cura del giornalista Vittorio Zambaldo.
Da battiferro ad artista
«L’idea di realizzare un libro c’è sempre stata», esordisce l’ottantacinquenne. Con una riservatezza tale che ne lascia intendere la finalità: raccontare la dedizione quotidiana, consegnandola alla memoria, nella speranza che possa essere d’ispirazione per qualche giovane interessato a un mestiere tanto antico quanto affascinante, quello del fabbro, oggi in via d’estinzione. Soprattutto alla maniera in cui l’ha sempre concepito Gino: una artigianalità che poggia sulle solide basi della conoscenza e che nell’atto della creazione riesce talora a sconfinare nell’arte. Con il genio dello scultore che, in lui, è finito col prevalere.
«Avrei il titolo di maestro per insegnare, l’ho conseguito a Venezia», confessa, mostrando l’attestato racchiuso da una cornice. Desiderio non realizzato, se non per gli apprendisti che sono passati dal suo laboratorio di Cogollo, frazione di Tregnago. Così come il sogno di veder nascere nel Veronese una scuola in cui trasmettere la sua professione: un luogo in cui esercitare la tecnica del battere con il martello, del forgiare domando il fuoco, del cesellare e dello sbalzare finemente la materia per trasformarla in pezzi unici.
Appena dodicenne, Gino iniziò a frequentare la bottega artistica di Berto da Cogollo e in seguito del figlio Alberto detto Bertin. La sua attitudine andava indirizzata: «Da piccolo scolpii il volto di Cristo su un sasso, usando un altro sasso al posto di scalpello e martello», ricorda. Perciò decise di frequentare per tre anni la scuola domenicale di disegno e ornato di Tregnago. Berto aveva visto bene: quel ragazzetto riusciva a realizzare minuscoli dettagli. A bottega rimase fino al compimento dei venticinque anni, accumulando conoscenza e aneddoti che tuttora ama riferire. Per esempio la realizzazione dell’angelo trombettiere della chiesa di San Massimo: tre metri di statua in rame sbalzato, in sostituzione dell’originale in legno rivestito di stagno, che fu issata sul campanile con un elicottero.
Tra l’incudine e la forgia
Una vicenda tra le tante che affiorano osservando le opere presentate nel libro. Piccola parte di un’ampia collezione visibile a cielo aperto nei monumenti che portano la firma di “Gino da Cogollo”, manufatti in ricordo dei caduti di Bolca, degli alpini di Bovolone, del Marrone di San Mauro di Saline, del beato fra Claudio scultore a Chiampo nel Vicentino, del “bogon” a Sant’Andrea di Badia Calavena. Quindi nel laboratorio inaugurato nel 1995, nella zona artigianale di Cogollo, dopo che dal 1969 al 1994 lavorò in società col fratello Mario. Dalla chiusura dell’attività, a giugno del 2019, questa fucina è diventata museo privato in cui lo scultore del ferro volentieri accoglie (in tempo di pandemia, rispettando le norme di distanziamento fisico) appassionati e scolaresche.
«Ancora prima di disegnarla, l’opera è già nella mia testa. Ascolto il committente, osservo il luogo in cui andrà collocata e so già cosa devo fare», spiega l’artista. Seguono il disegno del bozzetto, lo studio attento delle proporzioni, la meticolosa scelta dei materiali, le lavorazioni che richiedono molte più ore di quelle preventivate. E l’insistere attento, tra l’incudine e la forgia, modulando il caldo e il freddo fino a far affiorare forme e figure.
«Basta una martellata nel punto sbagliato per rovinare tutto», aggiunge. Ed è qui che entra in gioco la maestria nel ricavare dal ferro figure esili, che sembrano fluttuare di leggerezza. Animali o corpi umani dai garbati movimenti che si esprimono quasi in una danza nella torsione di un busto, nell'estendersi di un braccio, nel reclinarsi di un capo. Eppure è ferro che disegna curve, diventa sottile o acquista spessore, si attorciglia con naturalezza. Particolari che si ritrovano nelle opere realizzate per chiese, cimiteri e abitazioni private.
Album di fotografie, diligentemente catalogate dalla moglie Rita, segnano le tante tappe della carriera artistica di Bonamini: il debutto, con una scultura dedicata a Giulietta e Romeo portata a Mosca per un’esposizione e mai più ritornata a casa; il Crocifisso per l’Opera dei padri Camilliani di Predappio (Forlì) e il Cristo morente per la parrocchiale di Cogollo, la cui espressione fu da spunto per un’opera finita nella cattedrale di Kampala in Uganda; la copia a sbalzo del volto di santa Giustina ispirata alla pala di Paolo Veronese e il Busto di San Giovanni Calabria collocato all’ingresso del Centro polifunzionale don Calabria di Verona; l’Ascensione e La pesca miracolosa donate a papa Giovanni Paolo II. Solo qualche esempio di una vita, appunto, trascorsa tra l’incudine e la forgia. Con esiti sorprendenti.
Per informazioni sulla pubblicazione, presto disponibile nelle librerie di Verona, contattare Gino Bonamini: telefono 045.6500534, email ginobonamini@gmail.com.
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